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Qualunque manufatto – dipinto, scultura, oggetto che sia – va prima di tutto visto ed esaminato nella sua consistenza fisica, nella sua natura di oggetto prodotto dall’uomo, nella sua identità materiale, nella sua funzionalità, ma anche – per dirla con Cesare Brandi – nella sua “fragranza”.
In sostanza dovremmo essere capaci di integrare la dimensione conoscitiva con l’esperienza etica del guardare.
Poiché ogni opera è un veicolo di messaggi, presenta una poliedricità di significati, stimola tracce di discorsi in più direzioni. E’ un medium e quindi provoca una comunicazione multisensoriale.
Nel caso degli spaventapasseri ci troviamo di fronte a oggetti disomogenei portatori di infiniti richiami, oggetti polifonici, oserei chiamarli: parlano a più voci ed emettono infiniti richiami.
Emozioni che suscitano appaesamento e riconoscimento.
Sono forme di rappresentazione della cultura che li ha prodotti, forme di ritualità, più che oggetti con una specifica funzione nel ciclo produttivo, come talvolta si è creduto.
Sono rappresent-azioni, crea-zioni, frutto di azioni creative atte a suscitare risonanza e meraviglia. (Greenblatt 1991)
Risonanza, in quanto l’oggetto evoca la cultura che lo ha generato.
Meraviglia, perché viene esaltato l’aspetto del meraviglioso: è un oggetto che stupisce.
Sì, gli spaventapasseri sono espressione di una cultura contadina sempre avvezza alla sorpresa e allo spavento. Una cultura del pressappoco.
“L’art du paysan n’est tant l’art de compter que celui de prévoir”. (Gaignebet)
E da qui deriva l’importanza dell’esperienza e dei cerimoniali.
Era necessario prevedere, non certo pianificare, parola questa frutto di un’altra civiltà. Tutto il calendario popolare vive nella tensione della preveggenza, nell’ansia di scrutare e di conoscere i segnali del mutamento.
Nel mondo agrario tutto è indizio di qualcosa, mille possono essere i segnali del prossimo evento: “Quando la fiamma d’una lucerna o d’altra qualsiasi luce d’olio e di sevo lancia frequenti scintille, e quando il lucignolo forma alla sua estremità una specie di fungo o cappelletto, è molto probabile che voglia piovere”.
“Il grido delle gru migratrici annunzia il tempo per l’aratura e per la semina”, “le viti dovrebbero essere stralciate prima dell’apparire della rondine”, dice Esiodo.
Insomma i segnali e i pronostici sono sempre stati connaturati alla mentalità contadina, sensibilissima – come è naturale – alle annate buone e a quelle cattive, ansiosa di conoscere se il pane sarebbe bastato, oppure se si profilava qualche minaccia.
Da qui la necessità dei pronostica temporum; la necessità delle strologherei del futuro, della precognitio copiae aut pauperitatis futurae, l’interpretazione delle ceneri del ceppo o della farina sul setaccio (la ventura).
Il contadino è sostanzialmente un raccoglitore, e per questo deve predisporre in anticipo un programma per fronteggiare le variazioni stagionali e tutte le possibili incertezze sul futuro: e così bisogna fronteggiare anche i passeri, o qualsivoglia tipo di uccelli, che non devono certo disturbare la sementa.
Ruolo determinante assumono così tutte le esperienze e i cerimoniali.
Il contadino è avvezzo a guardare alla terra ma anche al cielo, dove è possibile scorgere gli indizi e i presagi del nuovo che, misteriosamente, sarà sempre simile al vecchio, perché niente sotto il cielo contadino, si configura come assoluta novità.
Così gli spaventapasseri appartengono a un rituale di decodifica ormai smarrito, morto con la civiltà che l’ha prodotto, e il loro è un linguaggio che ormai perduto intrecciato con un senso ciclico del tempo, tessuto di ricchezza auspicata e di fecondità sognata.
Sono manufatti che hanno rapporti strettissimi col cielo, col sole e con la luna.
Sorta di totem, che elevano la terra al cielo nella ricerca di auspici.
Non hanno cervello, come gli spaventapasseri del mondo fantastico del mago di Oz, ma emanano emozioni, e forse anche idee geniali, ma solo per chi le sa cogliere e interpretare, come accadeva nel paese dei Pilluccioni. E lì come qui, stanno in luoghi particolarmente ameni, in cui la terra aspira a elevarsi verso il cielo, talvolta coi cipressi, talvolta con gli spaventapasseri.
Spaventano? Non lo so, ma so che dialogano, perché pensano anche se sono senza cervello.
Difficile coglierne il respiro, per spettatori frettolosi e distratti.

Scommetterei che parlano con la Luna
e scommetterei che Lei risponde.

L’uomo e la donna, in vacanza nel mondo, uniti da affinità elettive se ne andavano timidi e tenaci come bambini.
Lei gli aveva teso la mano e lui l’aveva afferrata come un cieco.
Fu così che si riconobbero e cominciarono, insieme, a recitare se stessi.
Fu così che quel fuoco che covava divampò leggero, e ognuno indossò la vita dell’altro.
Lui inseguì lei che inseguiva lui.
Custodirono in un sacco profondo i sogni, mentre i pensieri girovagavano liberi con onirica levità.
Custodirono in tasca un ordine di saperi recisi, mentre andavano calpestando quella terra che sembrava tremare, tale era il crepitio di memorie.
– Ogni granello – sai – è come un pianeta antico, lì, pronto a esplodere!
Come esploratori che ospitano le curiosità del mondo, cominciarono a intessere legami dimenticati, in quella fantastica terra di universi violati.
Come curiosi a caccia di segreti, cominciarono a percorrere quelle terre ambrate e mutevoli: crete nella mani di un artista inquieto.
– L’oblio – sai – è intessuto di fili di seta e a volte basta trovare un bandolo!
E così li incontrarono.
E così si snodarono come frammenti di un racconto che, docile, si lasciò subito scrivere.
Ma Loro, in quel lento corteo d’ombre, avanzavano o arretravano?
Nessuno può ancora dirlo.
Difficile coglierne il respiro.
Presenze ritrovate nel non spazio del sogno,cercano di sorprendere il tempo col loro curioso e mutevole alfabeto, distillano magie.
Il tutto in vibrazioni astrali.
– Perché non chiedi?
– Perché non voglio sapere, mi basta sentire.
Si dice che fra i drappi inquieti della notte, appena cala l’ala del silenzio, interpretino il vento, come conchiglie riecheggianti eterni flutti marini.
Si dice che tra il fuggi-fuggi dei fantasmi, al lumeggiare dell’alba, discettino d’amore e di morte, come vati risveglianti l’attimo-luce, immersi in gorgoglii di risa e sibili d’incantesimi.
Illudono, chi li contempla, di essere altro da sé.
E così si fermarono, come se fossero giunti al confine del mondo.
All’improvviso si accorsero di essere: non c’era più bisogno di liberarsi dal peso.
E fu come riconoscere il respiro di un’adolescenza ancora umida sulla pelle.
Seguiteli, se avete voglia di appaesamento.
Seguiteli, se riuscite ancora a carpire i fremiti dell’utopia: sono ”toscani un po’ speciali”!

Scommetterei che hanno provato a chiedere perché
e scommetterei che Loro hanno risposto.