Lassù al confine con l’universo

26 Luglio

Partire per il Tibet, partire via Nepal, da Kathmandu. La prova del 2003 era fallita a causa della famigerata SARS. Ricordate? Quest’anno non ci sono scuse, il viaggio è assolutamente da fare. Le prenotazioni del volo non sono semplici; dapprima si concerta tutto con la Biman (compagnia del Bangladesh), poi ci si ripensa e si preferisce la più affidabile Qatar Airwais dell’Arabia Saudita. Tibet e Nepal … e dato che siamo a due passi, perché non fare un salto a Varanasi, in India? D’accordo, allora però la partenza dovrà essere anticipata di qualche giorno, il che impedisce (purtroppo!) a Gianni di partire con noi; ci raggiungerà più tardi. Come sempre si prenotano i voli, internazionali ed interni: Roma-Kathmandu, Kathmandu-Varanasi e Kathmandu-Lhasa. Per il resto ce la sbrigheremo direttamente sul posto. La partenza è da Roma, alle 20.30. Si viaggia tutta la notte, salvo una sosta di qualche ora a Doha, sul Golfo Persico.

27 Luglio

Il viaggio scorre perfettamente, la Qatar si conferma un’ottima compagnia; il servizio è quanto di meglio si possa immaginare, la gentilezza del personale ineccepibile. Sono pochi i turisti che viaggiano con noi; dall’Italia soltanto un gruppo organizzato da “Avventure nel mondo”. Si arriva a Kathmandu in perfetto orario, nella tarda mattinata. Le operazioni doganali si svolgono senza intoppi e, contrariamente a quanto si era inteso, il visto di acceso al Nepal è gratuito se non supera tre giorni. L’aeroporto è quasi in centro. E’ letteralmente assediato da centinaia di taxisti, autorizzati e no. Si sceglie un ragazzino che con 200 Rial (poco più di 2 euro) ci conduce a destinazione. L’albergo è il “Kathmandu Guest House”, indicatoci dalla guida “Lonely Planet”, posto al centro del quartiere storico, lo storico Thamel. La trattativa per il prezzo non è particolarmente impegnativa: una camera doppia si tratta per 16 euro. Questo Hotel è stato un po’ il nostro punto di riferimento dell’intero viaggio: da qui siamo partiti e qui siamo tornati per ben quattro volte. Ci conoscevano ormai tutti, ma ci conoscevano anche perché la familiarità dell’accoglienza costituisce una specifica peculiarità dell’albergo. Un vero e proprio “porto”, particolarmente “boemiénne”, una grande ed accogliente hall, un curatissimo giardino rilassante, tipico di quei luoghi di sosta dove sostare fa parte del corso piacevole del viaggio. E’ particolarmente frequentato da turisti che sono o in transito verso il Tibet o pronti per affrontare giorni e settimane di percorsi trekking sull’Himalaya. Alla sera la hall si riempie, si compongono vari salotti ed ognuno discorre beatamente delle proprie avventure, in programma o già consumate. Si sapeva che da qui sarebbero transitati anche Lucia, Saverio e Luca, nostri amatissimi amici fiorentini che ci avevano anticipato nel viaggio in Tibet. Nessuna meraviglia, dunque, nello scorgerli appena arrivati. Le informazioni del caso sono tuttavia rinviate di qualche ora, adesso serve un po’ di meritato riposo; l’appuntamento è per il tardo pomeriggio, ovviamente nella hall. E’ qui che si contatta il rappresentante di un’agenzia specializzata in viaggi Tibet; è la “Gurka Encounters”, che ci prospetta una buona soluzione (otto giorni, una land cruiser con autista e guida, pernottamento e prima colazione, visti e permessi speciali) ad un costo ragionevole: 450 dollari a persona. Ci si consulta con l’ amico Saverio che stima il pacchetto un’ottima offerta, dunque, dopo varie raccomandazioni nei confronti del giovane agente per avere assicurazioni che il tutto funzioni regolarmente (soprattutto dopo che Saverio ci ha narrato le avventure con la loro guida tibetana), pur avendoci avvertiti che comunque con le agenzie tibetane qualche problema c’è da aspettarselo, non ci resta che confermare l’intero pacchetto. Rilassati, si va tutti a cena su una terrazza (i ristoranti sono quasi tutti su terrazze), dove gli amici ci raccontano la loro esperienza, ci offrono utilissime indicazioni, non ci risparmiano anticipazioni sui disagi che incontreremo, ma neppure sulla straordinarietà del percorso. Stasera si mangia bistecca, si beve birra e si spendono ben 4 euro. Più tardi si telefona a Silvia e poi si sprofonda in un letto molto comodo.

28 Luglio

Si consuma la colazione ancora una volta su un terrazzo, poi si consegnano all’amico dell’agenzia tutti i documenti necessari per le operazioni di visto e permesso e a metà mattinata si parte per la “Durbar Square”, il vero punto di partenza per familiarizzare con Kathmandu. Si tratta di una vasta area pedonale, composta da piazze e monumenti che risalgono principalmente al XVII e XVIII secolo. Siamo nel centro nevralgico della città vecchia, dove si respira l’atmosfera più autentica di Kathmandu. Qui sono raccolti i palazzi storicamente più significativi, qui si incontrano il tempio di Shiva, quello di Trailokya e quello di Parvati, quello di Krishna e di Bhagwati. Uno dei palazzi più gettonati è il “Kumari Bahal” , dimora della dea vivente, la giovane fanciulla scelta come dea vivente della città, che dovrà però lasciare il tempio quando avrà raggiunto la pubertà, per tornare ad essere una comune mortale. La figura della Kumari è legata ad un’infinità di possibili leggende; è scelta in tenerissima età sulla base di 32 requisiti fisici ben precisi. Si passa qui quasi l’intera giornata e dopo aver visitato L’Hanuman Dhoka, il vecchio Palazzo reale, si rientra a piedi nel nostro quartiere Thamel, attraversando un labirinto di straducole, vicoli e cortili di un tipico quartiere popolare, anch’esso però costellato da monumenti e piccoli tempi. Durante il tragitto si coglie l’occasione per visitare i primi negozi di vario artigianato. In Nepal è tempo di monsoni, che francamente potrebbero guastare almeno in parte il viaggio. Noi abbiamo avuto fortuna, con l’eccezione di questo pomeriggio, durante il quale la pioggia si alterna a veri e propri rovesci. Intorno alle 18.00 ci si raccoglie ancora una volta su un terrazzo per consumare  thè, poi si rientra per prepararci alla cena, che anche stasera consumeremo insieme a Lucia, Saverio e Luca. Dopo cena non resta che attardarsi per un po’ nella hall, visto che non esistono prospettive di vita notturna. Coricarci presto sarà dunque una regola permanente di tutto il viaggio.

29 Luglio

Appena alzati, dopo una profonda dormita, ci viene l’idea di controllarci la pressione, dato che il nostro prossimo futuro saranno i 4-5.000 metri di altitudine del Tibet. Si prova prima con l’apparecchio di Sandra, poi con quello più professionale di Cristina. A me risulta una pressione altissima, ma anche Cristina non scherza; l’unico che resiste è Pietro. Un po’ preoccupati (soprattutto della preoccupazione!) si estende il controllo anche a Lucia, Luca e Saverio. Quest’ultimo, normalmente di pressione bassa, stamani l’ ha altissima. E’ così che mi convinco che non c’è da incaponirsi troppo con i controlli… e da allora com’ è andata è andata, ma con i controlli ho detto basta. Oggi è prevista la partenza per Varanasi. L’India era già stata l’ ”occasione di un grande viaggio”, ma ci mancava, fra le tante altre cose, Varanasi che, a poca distanza da Kathmandu, è stata messa in programma per quest’anno. L’aereo è previsto per la tarda mattinata, dunque, dopo un caloroso saluto con Lucia, Saverio e Luca, si parte per visitare, nel frattempo, la nota “Freak Street” che, come avete già capito, si tratta della strada famosissima ai tempi dell’invasione – hippy di Kathmandu, intorno agli inizi degli anni ’70. Era l’epoca d’oro dei figli dei fiori che qui trovavano hashish, la musica di Jimi Hendrix, in una specie di isola felice dall’atmosfera liberal, un’atmosfera che allora contagiò, per lunghi anni, migliaia e migliaia di giovani provenienti da ogni angolo della terra. Oggi il clima non è più lo stesso; la “Freak Street” rappresenta poco più che una strada ordinaria, anche se vi si percepiscono e si leggono alcuni segni del passato, appunto, però, consegnati al passato. A metà mattinata ci si avvia in taxi verso l’aeroporto; l’aereo parte con un’ora di ritardo, quindi si giunge a Varanasi (dopo 50 minuti di volo) intorno all’una. Siamo in una delle più antiche città della terra, la città della massima religiosità dell’India. Il noto narratore statunitense Mark Twain, alla fine dell’800 ebbe a dire che “ Benares (Varanasi) è più antica della storia, delle tradizioni e persino delle leggende”. Dall’aeroporto telefono a Stefano, un italiano, amico dell’amico Paolo Pecile di Firenze, che qui vive con la famiglia, impegnato in progetti di cooperazione. Stefano aveva il compito di tentare la prenotazione del pernottamento al “Ganges view”, ma non vi è riuscito, dunque non ci resta che tentare da soli, utilizzando un taxi che attraverso un incredibile traffico ci porta all’Assi Ghat dove, appunto, si trova il nostro possibile albergo. Ci è stato consigliato da Paolo Pecile e ci incuriosisce vieppiù per il fatto che qui era solito soggiornare (anche per lunghi periodi) il grande Tiziano Terzani. La fortuna vuole che vi siano camere disponibili in questo accoglientissimo e raffinato albergo, proprio affacciato sul Gange. Quando si avverte che siamo conoscenti e anche amici di Terzani, l’atmosfera si fa ancora più cordiale, ci servono subito caffè e tè sulla raccolta terrazza, dove ovunque sono sparsi libri di Terzani. Appena il tempo di familiarizzare, prendere in consegna le camere, gustare lo scenario panoramico dalla terrazza e poi via lungo il Gange, attraverso il susseguirsi dei numerosissimi ghat. I turisti sono pochi e quei pochi sono letteralmente accerchiati da procacciatori di tutti i tipi, che non di rado esagerano con le loro insistenze, sia che vogliano venderci qualcosa, sia che intendano accompagnarci e farci da guida. Si cammina per metà pomeriggio, attraverso folle che partecipano devote alle infinite manifestazioni cerimoniali che si svolgono ininterrottamente lungo il fiume. Su alcuni ghat si concentrano quelle più spettacolari, organizzate scrupolosamente, partecipate in modo caloroso da centinaia e centinaia di devoti. Non capiremo mai compiutamente tutti quei significati e tuttavia la partecipazione è di un’assoluta ritualità coinvolgente, ti prende senza che tu ne sia incline. Poi si attraversano le aree attrezzate per la cremazione dei morti. Difficile raccontare; possiamo dirvi delle file di corpi distesi in attesa del loro turno, così come dell’ organizzazione preposta al buon funzionamento dell’intera operazione. Sul Gange si viene per purificarsi, chi muore sul Gange ha la salvezza assicurata. Si rientra in albergo alle 20.30 per la cena, un tipico menù indiano a base vegetariana; poi sento ancora telefonicamente Stefano, con il quale concordo di vederci a casa sua l’indomani mattina alle 9.00. Si cede al sonno molto presto e volentieri, sia per l’accoglienza delle nostre camere, sia perché al mattino vogliamo metterci in barca per attraversare il Gange prima dell’alba, ovvero alle 5.00.

30 Luglio

Come da programma si noleggia una barca per partecipare alle cerimonie mattutine degli indiani, che sul Gange svolgono gran parte delle loro funzioni. Al mattino sono lì per innalzare riti verso il sole nascente, ma anche per le loro operazioni di pulizia individuale: dal lavarsi i denti a fare il bagno, a lavare i propri vestiti. Attraversare il Gange in barca è una vera ed unica esperienza. Non soltanto si domina così l’impatto con l’insieme della città che sul fiume, appunto, si attesta, ma si partecipa anche direttamente alle loro cerimonie. E poi ci si confonde con la vita del fiume sacro: navigando al largo si vive meglio l’impatto della cremazione, ma soprattutto quello con l’indescrivibile scenario di tutto quanto si riscontra sul Gange, fino a corpi defunti lì abbandonati perché, in quanto asceti, non possono essere cremati. Dopo alcune ore trascorse in questo “inferno”, si approda al ghat attraverso il quale si accede direttamente all’abitazione di Stefano, che ci aspetta intorno alle 9.00. Vive in un condomino tutto suo, in tipico stile indiano. Qui ha sede una sorta di società cooperativa, proprio perché sede delle varie attività progettuali di Stefano e della moglie indiana. Vive qui con una figlia (perfettamente integrata) e con un figlio che integrato lo è un po’ meno. Lavora a diversi progetti di cooperazione, l’ultimo, al quale ha lavorato insieme all’Università di Firenze (da qui l’amicizia con Paolo Pecile), è incentrato sulla riprogrammazione dello sviluppo urbanistico di Varanasi. Un’impresa non da poco, che comunque non fa sgomentare uno Stefano tutto nel suo centro quando ci illustra la vita dell’India. Ci parla del potere ancora esteso delle caste, ci parla dell’economia e della politica, ci parla del significato delle quattro fasi della vita umana: la prima è quella della formazione, poi c’è quella del lavoro, quindi quella della saggezza ed infine quella dell’attesa del passaggio ad altro mondo. Varanasi è caratterizzata soprattutto per la presenza delle ultime due fasi. Quindi una popolazione anziana che proprio sul Gange intende fare i conti con la vita terrena e prepararsi a quella eterna. Dopo lunghe ed interessantissime dissertazione che ci servono non poco a comprendere e a penetrare al meglio la cultura di questo popolo, si parte insieme per una visita alla parte vecchia della città: il mercato, i negozi di seta, i vicoli stretti ed affollati che conducono tutti e comunque ad uno dei numerosi ghat che consentono l’accesso al Gange. In tarda mattinata dobbiamo salutare Stefano (che ci promette di farsi vivo quando tornerà in Italia) perché impegnato altrove. Noi rientriamo in risciò all’ hotel ed appena giunti si è avvertiti dal proprietario della morte di Tiziano Terzani. Quando si dice il caso: ieri ne abbiamo parlato a lungo al nostro arrivo, oggi se ne deve purtroppo parlare perché deceduto. Il proprietario mi affida una lettere che mi prega di consegnare alla moglie Angela. Peccato, anche se sapevamo del suo criticissimo stato di salute, precipitato proprio negli ultimi giorni. Ci si concede un’ora di riposo che io preferisco trascorrere sulla terrazza ben ventilata, piuttosto che all’aria condizionatissima della camera. Poi si visitano alcuni templi situati nei pressi, in particolare quello di Durga, uno dei più celebri, quindi si torna nel centro della città utilizzando un rudimentale calesse trainato da un cavallo. Si visita subito il “Golden Temple”, mentre la città si sta animando ed affollando, così come cominciano ad affollarsi i ghat sui quali, come ogni sera, soprattutto in questo periodo, si svolgono manifestazioni, cerimonie e riti con centinaia e centinaia di persone. Alle 20.00 si parte per raggiungere un ristorante. Nell’insopportabile caos si riesce a noleggiare un taxista, che con un’auto completamente sgangherata riesce a condurci a destinazione. Per il rientro si noleggiano risciò, che però impiegano oltre mezz’ora per ricondurci all’hotel.

31 Luglio

Ancor prima della colazione, Pietro decide di scorrere, di buon mattino, il susseguirsi dei ghat, soprattutto per completare il servizio fotografico che, appunto, meritava comunque un supplemento. Ovviamente, da buon amministratore, Pietro non si sottrae ad arricchire le sue informazioni a proposito del bilancio finanziario della gestione dei crematori. Si sa che l’uso è a pagamento e la quota è proporzionata alla quantità della legna che ognuno intende impiegare. Lì per lì il fatto sembra afferire alla casistica del macabro, in realtà, a ben pensarci, è un po’ come quando, secondo il nostro costume, trattiamo il costo dei loculi in un cimitero comunale. Dopo colazione si parte per l’aeroporto e durante il tragitto Sandra è presa da una forte crisi di pianto, che spiega con l’interrogarsi sul nostro possibile fare per contribuire a rimediare una così difficile situazione. Naturalmente non vi possono essere risposte, a parte il fatto che non tutti sono convinti che si debba fare qualcosa, giacchè, come ad esempio ci ha sostenuto l’amico Stefano, la grandissima parte della gente è felice e forse addirittura soddisfatta della loro condizione di vita. Al ritorno si viaggia (caso eccezionale!) in “business class” , dove da gran signori ci sbrigano un’ ottimo servizio, insieme ad un appetitosissimo pranzo. Bravissimi! In aeroporto, a conferma di quanto il mondo, per quanto lo si tenti di “circondattraversare” , è in realtà molto piccolo, tant‘è che a Kathmandu si incontrano amiche comuni, ovvero le cugine di Giuliano Ghelli, un nostro carissimo amico artista di San Casciano. Oggi, a metà pomeriggio, è programmato l’arrivo di Gianni e dunque nelle tre ore che restano ci sembra cosa saggia recarci a Pashupatinath, a due passi dall’aeroporto. Vi si trova il tempio hindu più importante del Nepal, ma soprattutto è la sede più nota in Nepal per le cremazioni, tant’è che è anche detta piccola Varanasi. All’ingresso ci si diverte con il personale addetto, che in parte ci invita a considerare nient’altro che un fatto normale il trasmigrare dei cadaveri destinati alla cremazione, in parte conviene con me che merita comunque ritardare al massimo quest’ultima trasmigrazione. La visita è tuttavia molto suggestiva: dopo aver attraversato il sacro fiume Bagmati si sale sopra una collina terrazzata dalla quale si riesce a dominare tutti gli accadimenti dell’intero villaggio. Siamo all’interno di un ambiente stranissimo: da un lato i ghat della cremazione, dall’altro un’amena collina da dove, soprattutto i curiosi, possono partecipare alla loro vita quotidiana, osservando il tempio dall’alto. Qui ha sede anche un attrezzato centro di accoglienza per anziani fondato da Madre Teresa di Calcutta, che qui visse parte della sua vita. Intorno alle 17.00 si torna in aeroporto per accogliere, puntualissimo, Gianni. Ci racconta e soprattutto gli si racconta, mentre si prenota un mezzo per tornare nel nostro  animatissimo quartiere Thamel, nel nostro Kathmandu Guest House, dove si fa appena in tempo per salutare Lucia, Saverio e Luca, che stanno nella hall ad attendere la prossimissima partenza per il loro rientro in Italia. Subito dopo ci si confonde ancora una volta nell’intricato dedalo di vicoli del quartiere per una breve passeggiata, che serve a Gianni per fare conoscenza  dell’ambiente. Poi si sale ancora su una delle tante terrazze per una lunga ed ottima cena, durante la quale si anima un’accesa discussione a proposito della gioventù di oggi, naturalmente scadendo nel tentare confronti con la nostra generazione. Le posizioni non coincidono ed il calore della discussione colpisce l’attenzione dei presenti, mentre i camerieri ridono e attendono, divertiti, che si liquidi il conto. Di li a poco si telefona a Silvia, che ci tranquillizza sulla condizione dei nostri vecchi e dunque ci consente di sprofondare nei nostri letti, rilassati e liberi da troppe preoccupazioni.

1 Agosto

La pregiatissima valle di Kathmandu, intrisa di un mistico profondo, è l’ambita meta di quest’oggi. E’ la culla storica del Nepal dove sono, nel tempo, accaduti tutti i fatti più importanti e significativi della sua storia. Il tutto è concentrato nelle due più famose città: Bhaktapur e Patan. Con un pulmino noleggiato per l’intera giornata, si parte alle 9.00 per Bhaktapur, conosciuta anche come città dei devoti. In tutta la valle domina quella mescolanza di razze e culture che ha dato vita alla civiltà dei Newar (un vero e proprio popolo a sé), con le sue architetture straordinarie e la sua arte difficilmente paragonabile. La città si presenta in modo molto piacevole, a partire dal fatto che dispiega un’ampia area totalmente pedonale che ci facilita il compito di gustare la suntuosità dei suoi templi, dei monumentali cortili, all’interno di un’atmosfera prettamente medievale. Qui si mescola miracolosamente, generando una perfetta sintesi, lo splendore dell’arte e la vita quotidiana. E’ difficile poterci sottrarre all’assalto delle guide che insistono per accompagnarci, piuttosto che da quello dei venditori di tutto un po’. La vita della città è molto intensa, soprattutto perché una delle capitali dell’attività artigianale. Si visitano anche alcuni laboratori e poi si partecipa direttamente all’attività dei ceramisti, che soprattutto nella Potter’s Square (piazza dei vasai) svolgono le loro attività. I numerosi monumenti della città (che compongono la città stessa) sono ben curati e rendono merito a quella grande impresa di restauro che si tenne sul finire degli anni ’70, anche per merito della cooperazione del governo tedesco. Patan, la nostra meta successiva, dista pochi chilometri e si raggiunge sull’ora di pranzo, che consumiamo su un’avvincente terrazza, dalla quale si domina l’intera piazza. E’ nota come “Città della bellezza”, dove l’architettura newari raggiunge il suo massimo significato. La parte monumentale rappresenta una concentrazione di edifici, architetture, templi e monasteri. Pare che questa piazza contenga la più alta percentuale di edifici sacri rispetto alla propria superficie. Ne visitiamo alcuni, anche se quel che colpisce è l’insieme scenico della rappresentazione architettonica. La prima sosta è al Tempio d’oro, un curato e vissuto monastero buddista, risalente al XII secolo. Poi, attraverso l’intrecciarsi di vicoli e cortili della città vecchia, si torna nella piazza centrale per visitare il “Patan Museum”, realizzato con fondi e contributi austriaci. Si presenta come uno dei più bei musei mai visti, sia per l’accuratezza che per le straordinarie collezioni di oggetti di bronzo e rame, di illustrazioni sulla storia antica della città, naturalmente dominate da raffigurazioni di divinità buddiste ed hinduiste. Insomma, uno splendido esempio di ciò che si può anche in continenti periferici. Sulla via del ritorno, verso sera, non si può non concedere una pausa di rilassamento alle nostre signore, che ottengono la sosta ad un rinomato centro artigianale, purtroppo soltanto turistico ed eccessivamente caro. Si rientra intorno alle 19.00, dopo una giornata particolarmente intensa sotto molteplici aspetti, per fortuna caratterizzata da uno splendido clima solare. Io sono distrutto, avverto anche qualche malessere e dunque, per cautela, evito di uscire per la cena, che gli altri consumano invece in un tipico ristorante newari, dove vengono servite particolari pietanze con buona soddisfazione dei più, con l’eccezione del fatto che vengono consumate scomodamente, accasciati sul pavimento.

2 Agosto

Sono trascorsi cinque giorni e già si comincia ad accusare una certa stanchezza dovuta alla frenesia della vita, al caos movimentato delle città, all’intensità degli spostamenti. Stamani, eccezionalmente, si consuma la colazione in hotel, poi con un piccolo minibus si decide di visitare una parte della valle meridionale intorno a Kathmandu. Si sceglie la direzione ovest, sulla strada verso Bungamati. La prima visita è alla cittadina di Kirtipur, che presenta i suoi pochi gioielli in un quadro complessivo effettivamente trascurato. La parte più significativa è rappresentata dalle sue due colline, dove si trovano i due templi più noti. Noi si visita l’insieme molto dettagliatamente, anche perché un giovane ben documentato si presta garbatamente (non è la sola volta) a farci da guida. Parla abbastanza anche l’italiano (dice di esserne studente) e così ci ripete insistentemente il noto ritornello:”Chi va piano va sano e lontano”. La città è semivuota; io scommetto che sono tutti in ferie, mentre Pietro scommette sul fatto che gran parte è partita per Firenze, mentre noi siamo venuti fin qui. La cittadina è nota per la sua lavorazione della carta di riso. Si visitano alcuni laboratori molto interessanti, poi si fa un discreto acquisto di quaderni, fogli speciali e taccuini davvero preziosi. Prima di ripartire ci si affaccia dalla collina, che ci prospetta una vista molto suggestiva su Kathmandu, con sullo sfondo la catena dell’Himalaya. Si parte poi alla volta di Chobar e alla sua gola, poco più che un villaggio, ma molto pittoresco. Si visita il tempio e la gola scavata dal fiume Bagmati. Si rientra in città nel primo pomeriggio, che si impiega per le ordinarie operazioni di rito: conferma dei voli, spedizioni delle cartoline, si salutano gli amici del posto, si preparano i bagagli per la partenza dell’indomani e, ovviamente, ci si concede il tempo necessario per implementare l’elenco dei nostri acquisti. Per la cena si sceglie il ristorante dell’ hotel perché più comodo: si consuma una cena accettabile, ma siccome tutto è prodotto espressamente, il servizio è esageratamente lento.

3 Agosto

Il pacchetto pattuito per il nostro viaggio in Tibet prevede anche che alle 7.30 del mattino si sia prelevati per arrivare in tempo all’aeroporto, diretti a Lhasa, la capitale. Purtroppo (ma sarà questo il disguido più rilevante) dobbiamo ritardare la partenza di ben tre ore, poiché è pessimo tempo ventoso a Lhasa, quindi l’aereo (che da lì proviene) registra un notevole ritardo. Si parte finalmente intorno alle 14.00 e si arriva a Lhasa a metà pomeriggio. Le operazioni di sbarco sono assolutamente rapide e tranquille, si limitano al controllo del passaporto e del visto collettivo che ci hanno rilasciato a Kathmandu. All’esterno dell’aeroporto ci attendono l’autista e la guida, che ci avvolge al collo la sciarpa di benvenuto. Si parte poi alla volta di Tsetang, la seconda città del Tibet, posta a circa 90 km. dall’aeroporto di Gongkar. Si arriva alle 20.00 e si prende posto in albergo. Subito dopo mi faccio accompagnare in una farmacia per acquistare un qualche medicinale necessario a superare un’ipertosse fastidiosissima. Ci consigliano uno sciroppo che, in realtà, si dimostrerà davvero efficace. Subito dopo ci dirigono in un ristorante cinesissimo, dove si consumano piatti assolutamente cinesi. L’ambiente è qualunque: un grande salone qualsiasi, tanto che sembra di trovarci in una qualsiasi delle nostre case del popolo, magari in quella di Sciano, in quel di Certaldo. Si va presto a dormire, anche perché non esistono alternative di nessun tipo. Prima di dormire telefono alla mia mamma, che mi dice impegnata a sistemare la verdura dell’orto. Che invidia! E noi lì con quei menù sempre uguali, sempre con gli stessi sapori e con i medesimi gusti. Poi si va a dormire e si accusano i primi disagi dovuti all’altitudine: siamo oramai a 3.500 metri. Si respira male, tanto che sono costretto a trascorrere almeno la prim’ ora in poltrona. Insieme a tutto il resto conta anche la preoccupazione, a prescindere dai disagi effettivi. Poi le condizioni migliorano e si riesce anche a permetterci il lusso di alcune ore di sonno.

4 Agosto

L’approccio con il Tibet è difficile per tutti e così al mattino, nell’enorme sala anonima della colazione, sono molti coloro che accusano i primi affanni: un po’ di mal di testa, insonnia o comunque difficoltà a conciliare il sonno. Ma siamo in Tibet, l’atteso, il cuore propulsore di tutta l’Asia buddista. La colazione è tipicamente cinese, con piatti che incuriosiscono anche i più avvezzi a confidenze con le varietà culinarie. Alle 9.00 siamo già in partenza verso un appuntamento decisamente promettente: il Monastero di Samye. Sapevamo che la strada avrebbe rappresentato il massimo delle nostre difficoltà e sapevamo anche che avremmo potuto trovarla interrotta da corsi di acqua o quant’altro. Appena trascorsi i primi venti chilometri, eccoci la strada sbarrata dalla corrente di un corso d’acqua. L’autista tenta l’attraversamento e la nostra Land Cruiser resta in mezzo al guado. Ci si resta anche noi, che però si scende subito attraverso lo stretto finestrino (quasi tutti subiremo conseguenze di ammaccamento), si attraversa, scalzi, il fiume e si attende l’arrivo di qualcuno che possa riportare il mezzo sulla terra ferma. Per fortuna, appena qualche minuto dopo, arriva un mezzo ben attrezzato e forze anche esperto di esperienze analoghe tutt’altro che infrequenti. Ci porta soccorso e con un lungo cavo riesce, pur con difficoltà, a trascinarci fuori. Si riparte non senza preoccupazioni, visto che il primo impatto è stato devastante. Viaggeremo per centinaia e centinaia di chilometri, ma per fortuna senza mai incappare più in analoghe situazioni. Alle 11.00 siamo nella città monastica più antica del Tibet, con i suoi 1.200 anni di storia. E’ in nostro primo monastero, dunque lo frequentiamo con apprensione particolare. Samye rappresenta il primo tentativo di facilitare il radicamento del buddhismo nel Paese. La visita è entusiasmante e malgrado i ripetuti danneggiamenti subiti (non ultimo quello dovuto all’incursione cinese), il complesso monumentale ha tutto sommato abbastanza resistito. La visita parte dall’area centrale e già qui si riscontra la sintesi dei diversi stili architettonici: quello tibetano con quelli cinese e indiano. Particolarmente interessanti sono le cappelle ed i vari edifici abitati dai monaci, così come le affascinanti opere d’arte sacra tibetana. Il circuito si svolge in alcune ore, poi si mette in programma una breve sosta al ristorante del luogo, ma soltanto per consumare qualche bevanda e soprattutto per riposarci dalla stanchezza del viaggio e della visita. Poi, nel piazzale antistante, si prende confidenza con qualche prodotto nostrale, a partire dalle immancabili scatolette di tonno. La partenza via terra (tornando indientro fino a Tsetang) è sconsigliabile, meglio attraversare il fiume Yarlung con un barcone, che impiega circa un’ora per raggiungere la strada diretta verso Lhasa (mentre la nostra Land Cruiser tornerà via terra per riprenderci sul lato opposto). In attesa che ci raggiunga, si riposa (io e Sandra su poltrone di un tipico hostal sul fiume, dove ci si accascia un po’ ed io non riesco ad impedirmi anche una bella dormita). Si bighelloneggia per un paio di ore, mentre in questa specie di porto fluviale scorrazzano indigeni, soprattutto donne addette alla lavorazione dei campi. A metà pomeriggio si riparte alla volta di Lhasa, ma il viaggio è interrotto dalla partecipazione ad una processione: una manifestazione di religiosità folklorica che percorre una strada diretta verso un piccolo borgo dove si svolgeranno i riti del caso. La strada scorre abbastanza velocemente, attraverso villaggi senza tempo; è in discrete condizioni e prima dell’imbrunire siamo già alle porte della capitale. Noi si insiste per l’hotel Mandala, consigliatoci dall’amico Saverio. Purtroppo però sembra (o così fanno intenderci) tutto occupato e dunque, dopo le dovute insistenze, non ci resta che accettare un anonimo hotel cinese, magari più attrezzato dell’altro, ma senza la tipica anima locale. Si cena in un locale vicino all’ hotel, una specie di self-service, nel senso che tutto è esposto, anche se il servizio è svolto al tavolo. Una cena abbondantissima. Poi tutti a letto… e mentre si stanno calando i nostri corpi esausti sui rigidi materassi siamo raggiunti da telefonate interessate; scopriremo che sono prostitute alle quali, se avessimo potuto, avremmo risposto :” No, grazie, a questa altitudine ed in queste condizioni non possiamo permetterci sforzi”.

5 Agosto

Lhasa è il vero cuore del Tibet. Detta la “Terra degli Dei” o la “Città del sole”, malgrado gli interventi distruttivi operati dai cinesi, continua ad imporre un singolare fascino suggestivo. L’invasione cinese del 1959 ha rotto la mistica conservazione di una realtà che oggi espone tutti i suoi significati. Il Dalai Lama (il vero potere temporale) è stato costretto ad andarsene in India, i cinesi hanno circoscritto ai soli Monasteri l’esercizio spirituale del buddismo tibetano. Appena usciti dall’ hotel, ci si reca al centro della città per la colazione consumata in un bar molto fornito, sia di piatti cinesi, sia internazionali. Quasi tutti (ed in modi diversi) si accusano le conseguenze dell’abitare a quasi 4.000 metri di altezza; ma la parola d’ordine è resistere e soprattutto è assolutamente vietato lamentarsi, dato che nessuno ci ha obbligato, oggi 5 agosto, alle ore 9.00, a trovarci proprio qui. La nostra prima tappa è il Monastero di Drepung, ad appena 8 chilometri dal centro. Era un tempo il più grande Monastero addirittura del mondo ed ospitava ben 10.000 monaci, mentre oggi non più di 600. E’ uno dei pochi esempi in cui l’assalto della rivoluzione cinese non ha provocato danni irrimediabili. Risale agli inizi del 1.400, fu poi sede abbaziale del Dalai Lama, prima che questi si insediasse nel Potala. Il Ganden è il palazzo più rappresentativo ed è quello che visitiamo per primo. Le sale sono ben tenute, riccamente affrescate e recentemente restaurate. Si passa poi alla “Grande sala delle riunioni” per poi visitare parte delle centinaia di cappelle. Soltanto una parte dato che, come dice bene Pietro, non abbiamo da farci la Tesi e neppure il Capo. Tutt’intorno è un susseguirsi di cerimonie, mentre pregano mormorando e leggono su specie di breviari. Poi si stendono letteralmente per terra, prostrati verso le diverse divinità. Di tanto in tanto le preghiere assumono i toni del canto, mentre altri consumano i più diversi riti, insieme allo struggere del burro di yak in ampi recipienti illuminati da innumerevoli candele. Uno dei riti privilegiati è l’offerta di qualche moneta che lasciano sparse qua e là, ovunque. La visita all’insieme del monastero presuppone un interminabile saliscendi da un podio ad un altro, attraverso centinaia di scale. Noi siamo agli estremi, io in particolare sono colpito dalla nota letargia (sonnolenza da altitudine). Nella tardissima mattinata si rientra, si acquista qualcosa al supermercato di fronte all’ hotel e si va a consumarlo nella sala da thè, dove per le sole bevande ci portano un conto assolutamente sproporzionato. Soltanto Gianni (che dimostrerà le migliori capacità di resistenza) decide di recarsi, nel primo pomeriggio, a visitare il Monastero di Sera, anch’esso nei pressi. Noi invece ci si concedono un paio di ore di riposo, fino alle 16.30, dopodiché si parte per la visita al Barkor, il quartiere ancora integro della vecchia Lhasa medievale, dove vive l’essenza del popolo tibetano con tutte le sue tradizioni, i suoi riti, le sue spiritualità. Qui si trova il centro spirituale più importante dell’intero Tibet, il Jokhang, il tempio più sacro e frequentato. Intorno al Jokhang si sviluppa un folto, interminabile kora, circuito di pellegrinaggio, rigorosamente in senso orario, attraverso un pullulare di bancarelle (dove si vende di tutto), che tuttavia lascia spazio alle cerimonie mistiche dei devoti. I pellegrini giungono da ogni parte del Paese, recitano continuamente i mantra, con in mano la ruota di preghiera che gira, dall’altra un lunghissimo rosario. Si trascorre qui l’intero pomeriggio, naturalmente divagando anche in Barkhor Square, un’ampia piazza voluta dai cinesi nel 1985, proprio allo scopo di tenere sotto controllo i movimenti dei tibetani. Ci si appassiona ad osservare la serenità della gente, gente che non ha fretta, che non ha da correre da nessuna parte. Rilassati su alcune poltrone prossime alla piazza, si trova la forza e lo spirito per le nostre battute di sempre; ecco allora disquisire sul confronto possibile fra quei pellegrini che girano intorno al Barkhor ed i girotondini nostrani, oppure sulla decisione di Pietro (che non dorme da due notti) di accontentarsi stanotte della Valeriana, dato che Cristina non lo fa dormire. Poi si prende posto in un tipico e consigliabile ristorante del centro storico, il Tashi I, ottimo sia  per i piatti che per l’accogliente servizio… ed in 7 persone (ospite la guida) si spendono addirittura 16 euro. Si rientra abbastanza presto in hotel, serve riposare per prepararci alla giornata campale dell’indomani.

6 Agosto

La colazione si consuma nell’unica taverna aperta alle appetenze occidentali che, per quanto generalmente nessuno di noi ci tenga particolarmente, credetemi, in Tibet consentono di intervallare gusti, sapori e profumi non sempre facilmente sopportabili. Alle 11.30 è in programma l’attesa visita al Potala, il più famoso monastero-fortezza del Tibet. Sandra, che stamani si è alzata maldisposta, decide di riposarsi in camera fino all’ora di partenza, poi tenta la scalata al Potala, che si erge imponente, quasi distaccato, aggrappato sulla collina del Marpori (montagna del Budda) dalla quale domina l’intero territorio circostante. Si sale al castello, noi privilegiati, con un pulmino, attraverso un confuso via vai di pellegrini e turisti. Per fortuna è possibile arrivare fino in vetta è così Sandra può tentare, anche se purtroppo sarà poi costretta a rientrare in hotel, dato l’aggravarsi delle sue capacità di resistenza. Il Potala rappresenta il monumento per eccellenza di Lhasa, nonché una delle meraviglie architettoniche dell’intero Oriente. La struttura è imponente, articolata in oltre 1.000 sale distribuite su tredici piani, Soltanto per visitarne una parte (quella consentita) servono diverse ore. Le sale sono quasi completamente buie, appena illuminate dalle lampade al burro di yak. Rispetto al Jokhang vive una vita molto più museale, dove la presenza turistica domina letteralmente la presenza dei pellegrini. Peraltro, questa era la sede del Dalai Lama, quindi del governo, dell’amministrazione più che del culto. Qui il quinto Dalai Lama si trasferì, dal monastero di Drepung, nel 1649. La visita scorre fra sale, saloni, cortili, cappelle tutte finemente decorate, mentre dalle finestre lo sguardo spazia sull’intera città. La visita termina intorno alle 15.00, soltanto perché incapaci di ulteriori prove di resistenza. Si scende a piedi, percorrendo un ripido sentiero serpeggiante che mette a dura prova le nostre residue energie. Sandra, nel frattempo, si è riposata ed è dunque pronta per tornare nel centro storico, nel Barkhor, dove stasera tocca visitare l’interno del Jokhang. Anche qui si snoda un lungo percorso di cappelle, ognuna ben identificata, ognuna arricchita da statue molto pregiate, ognuna consacrata a personalità mistiche che hanno fatto la storia del Tibet. Purtroppo non è consentito visitare l’intero complesso, perché fortunatamente vi sono in corso lavori di restauro. Dopo la visita del pianterreno si sale al primo piano, dove sono allestiti servizi e dove nelle ampie terrazze i monaci svolgono attività varie, difficilmente comprensibili per noi, che vanno dal canto, fino ad una sorta di ginnastica ritmica di gruppo. Più tardi si esce e tentiamo di familiarizzare con alcune donne sedute nella piazza antistante. Indossano tipici indumenti coloratissimi ed eleganti. I fotografi del gruppo domandano di poterle fotografare e ricevono una risposta (mentre con le mani fanno il segno del chiedere soldi) comprensibile almeno nel suono, che simpaticamente sembra dire : ” … scuci, scuci, scuci…”. Siamo al centro della città e non possiamo mancare una nuova visita al quartiere, senza risparmiare la zona mercato. Si fanno ancora acquisti, ci si diverte nel trattare ed anche se agli stranieri chiedono inizialmente prezzi almeno doppi, si va comunque da valori pari al nulla, al quasi nulla. La cena stasera è in quello che la nostra “ Lonely Planet” considera uno dei migliori ristoranti di Lhasa. Non avrà fatto molta fatica, visto che si contano tranquillamente sulle dita delle due mani. Il piatto del giorno (provate ad indovinare !!??) è niente meno che basato sulla carne di yak, quella sorta di povero bufalo usato per la cucina, per il thè, per l’alimentazione delle grandi luminarie dei monasteri in segno di devozione …. e per tante altre esigenze. Stasera il piatto è però discreto, soprattutto perché il nostro yak è stato in qualche modo ingentilito ed ammorbidito, tanto da renderlo quasi commestibile. Il costo è ancora pari ad una sciocchezza, non superando  3 euro. La giornata è stata, come previsto, molto dura; totalmente spossati si rientra in taxi e sui divani della hall ci si concede l’occasione per ripassare il percorso dei prossimi giorni, attraverso l’Himalaya.

7 Agosto

Si parte molto presto per la “vera” avventura del viaggio: la Transhimalayana. Si decide di percorrere la strada più classica fra Lhasa e Kathmandu: la “Friendship Highway”, lunga 900 chilometri. I primi 100 scorrono tranquillamente perché in buone condizioni, tanto che si comincia a fantasticare l’arrivo alla prima tappa appena qualche ora dopo. Poi cambia tutto. La strada è sicuramente una delle più spettacolari del mondo, ma anche una delle più difficili, sia per la sua conformazione, sia per il pessimo stato di manutenzione, sia infine perché siamo ad oltre 4.000 metri di altezza. Il paesaggio è gradevolmente fresco, verdi coltivazioni a pascolo sono alimentate dalla presenza di molta acqua che scende dai ghiacciai vicini. Lungo il percorso non si incontrano località abitate, ad eccezione di alcuni punti di ristoro e qualche casa cantoniera. La manutenzione della strada avviene tutta manualmente e quindi, come si può immaginare, lo stato è al limite della transitabilità. Il clima è ottimo, fresco, ma con il sole che picchia forte. I pochi compagni di viaggio sono anch’essi accompagnati da Land Cruiser. Già a metà mattinata si penetra all’interno dello scenario delle montagne prossime all’Himalaya, un paesaggio lunare, dolcissimo con le sue immense praterie. Poi si attraversa un passo a 4.700 metri, invaso dalle preghiere appese a fili stesi. Le bandiere di preghiera sono sempre appese nei punti più alti: i tetti, i passi, i monasteri; si dice che possano più facilmente volare verso il cielo. Si scende, manca l’ossigeno, non si respira. Ragazzi, è dura! Eppure si è pagato per arrivare fin qui… e non foss’ altro per questo! No, è anche per mille altri motivi; siamo ad un palmo dal cielo, si tocca, c’è l’infinito. Forse c’è soltanto il vuoto, la strada che sopravanza dirupi. E poi, e poi c’è anche un po’ di sana incoscienza, che serve a mantenere giovani, a fantasticare per immaginare come sia possibile spingerci oltre e verso non si sa bene che cosa. Qui la vita è fatta di contemplazione e meditazione. “Il turbine che agita noi occidentali – dice Giuseppe Tucci nel suo Tibet Ignoto – e ci conduce rabbiosamente verso il temuto nulla, senza che abbiamo avuto il tempo di riflettere sul perché della nostra vita, è ignoto a questi romiti”. Alla classica ora di pranzo, l’autista e la guida si fermano e vanno al ristorante. Noi no, macchè ristorante, si pranza col nostro tonno, stesi sul prato antistante, difesi con l’ombrello dal sole accecante. Si resta sul prato per un breve riposo, poi si riprende alla volta di Shigatse ( significa “ Il meglio della terra”), dove si arriva alle 18.00. L’hotel che ci viene proposto è inaccettabile; non si pretende l’impossibile, comunque qualcosa di meglio. Si sceglie poi l’hotel “Postal”, contribuendo anche noi a sostenere parte dei costi che il nostro accompagnatore ci dice di non poter coprire interamente. Appena preso posto nelle camere si scende nella hall, dove Stefania tratta alcuni servizi di massaggio, sembra efficaci per tutti i possibili dolori. La prima visita alla città è piacevole, anche se la parte più interessante è rinviata all’indomani pomeriggio. Si cena in un bel ristorante, dove però il servizio è lentissimo. Nell’attesa dei piatti, si conversa con un coppia di signori milanesi, devoti al Dalai Lama, tant’è che sono qui con un viaggio organizzato da un centro milanese di suoi adepti. La signora è totalmente invasata: ci racconta di avvenimenti miracolosi, di guarigioni diversamente impossibili e quant’altro di assolutamente inimmaginabile. Shigatse è ad oltre 4.000 metri di altezza ed è qui che si provano i disturbi più noiosi: mal di testa, si dorme male, affaticamento generale. Io non me ne preoccupo affatto, dato che ero partito con preoccupazioni peggiori: pressione, scompensi cardiaci,  malanni irrimediabili, ecc, ecc.

8 Agosto

Il momento della colazione serve anche per fare il punto sullo stato della nostra salute che, immancabilmente, registra sempre maggiori  acciacchi. Stamani si fanno alcune conoscenze: c’è un giovane thailandese che parla italiano (ha vissuto a Firenze) e fa il musicista, c’è un gruppo di Rimini che quando gli racconto che tutte le volte in cui siamo presi da un po’ di scoramento siamo soliti domandarci :” Perché non siamo andati al mare a Rimini?”, mi rispondono che loro, invece, si domandano perché non siano andati in Versilia. Insomma, tutto il mondo è paese e per fortuna il paese è vario e divertente. L’idea di fare base a Shigatse per visitare anche i d’intorni si è rivelata ottima, anche perché la prossima tappa, Gyantse, dista appena 80 chilometri di strada molto buona (l’unico tratto in tutto il Tibet). E’ la terza città del Paese e tuttavia mantiene un particolare aspetto medievale. E’ soprattutto famosa per il suo Kumbum (tradotto significa 100.000 immagini), la stupa più grande del Tibet. Si tratta di un edificio a più piani che, appena arrivati intorno alle 10.00, ci si precipita subito a visitare. E’ straordinariamente ricco di splendidi dipinti e statue tibetane; è composto da sei piani simmetrici, compresa la cupola d’oro che sormonta l’intero Chorten (stupa). Si visitano gran parte delle cappelle accessibili (sono in tutto 77). I dipinti alle pareti sono molto ben conservati, soprattutto se si pensa che risalgono al XIV secolo. Dopo una visita accurata, Gianni e Stefania salgono fino al Monastero, mentre noi si resta nella parte alta del Kumbum a goderci il panorama sottostante. E siccome non manca l’immancabile mercato, prima della partenza si fanno nuovi acquisti tanto per mantenere la pratica. Si rientra a Shigatse alle 15.00 e si parte subito per visitare quello che io ho trovato come il più interessante Monastero fra quelli visitati. E’ l’arcinoto Tashilhunpo, il Monastero che occupa sostanzialmente l’intero vecchio quartiere tibetano. Fondato a metà del 1.400, è riuscito ad attraversare quasi indenne l’incursione della rivoluzione cinese, forse anche perché è sempre stato legato alle fortune del Panchen Lama (titolare del potere spirituale), notoriamente di politica filocinese, contrariamente al Dalai Lama. Tashilhunpo è una vera e propria città a parte, circondata da mura antiche, custodisce un patrimonio storico, architettonico ed una vita monastica attiva che non ha eguali in Tibet. I monumenti da visitare sono numerosi, anche se parte delle cappelle sono in restauro. Lo si attraversa quasi per intero, percorrendo il dedalo di viuzze acciottolate che serpeggiano tra gli antichi edifici. Anzitutto si visita la cappella di Jampa che ospita la più grande statua dorata del mondo, poi via via tutte le tombe ed infine il Tempio di Kelsang. Durante le varie visite si ha occasione (unica, durante tutto il viaggio) di dialogare con i monaci, alcuni dei quali si mostrano interessati ed incuriositi dalle nostre curiosità nell’indagare le storie e la vita ben curata dell’intero complesso. Durante la visita si incontrano di nuovo i nostri amici di Rimini: fra questi uno è rappresentante dell’Associazione Italia – Tibet ed è informatissimo sull’intera vicenda Tibet. Si passa del tempo a conversare, anche per meglio capire tutte le differenze fra Dalai e Panchen, le loro vicissitudini e possibili prospettive. Sul tardo pomeriggio si rientra verso l’hotel e nei pressi si scopre un piccolo quartiere caratterizzato dalla presenza di bettole e piccole taverne, dove si cucinano piatti tipicamente tibetani. Purtroppo però, malgrado la mia insistenza e quella di Gianni, non ci viene accordata la proposta di consumare qui la nostra cena. Peccato! Stasera è l’unico pomeriggio di pioggia in Tibet, che ci fa preoccupare soprattutto per l’indomani, il giorno più impegnativo e difficoltoso attraverso le montagne dell’Himalaya. Per fortuna invece il tempo sarà bellissimo, condizione assolutamente necessaria per superare le asperità del percorso. Intanto Pietro ha consumato interamente la sua bombola di ossigeno, acquistata nella hall dell’ hotel, allettato dalle premesse e dalle promesse incoraggianti per alleviare i disagi dovuti alla cattiva respirazione.

9 Agosto

Il 9 agosto è una vera giornata campale; a sera avremo viaggiato per oltre 400 chilometri e capirete in quali condizioni. Proprio perché avvertiti dell’impresa quotidiana da mettere in conto, si decide di partire non oltre le 7.00. Alle 6.30, primissimi ed in anticipo perfino sugli addetti al servizio, siamo nella sala colazione. Purtroppo la causa del ritardo della partenza è dovuta al ritardo dell’autista e della guida. Ci avevano avvertito che il personale addetto ai servizi turistici del Tibet era abbastanza inaffidabile, ma arrivare fino al punto di doverli svegliare … , questo mi è parso proprio troppo. Lo faccio non senza alterarmi e scopro che hanno trascorso la notte in modo “baldorioso”, senza limitarsi ad eccedere con l’alcool, così com’ è evidente dal comportamento, soprattutto della guida. Si parte con un po’ di ritardo e ci si immette immediatamente in una campagna molto curata, ricca di vegetazione, con coltivazioni lussuriose che rendono fresco e verde l’intero contesto, un ambiente particolarmente vissuto dalla presenza di numerosi pascoli. La strada è tremenda, niente di più che una pista tortuosa, sterrata, piena di fango e buche profonde. E’ vero che di quando in quando si incontrano squadre di operai addetti alla manutenzione, ma possono al massimo rimediare all’1 per mille del fabbisogno… e noi ci si domanda: ma come faranno a scegliere le buche da risanare dato che, appunto, intervengono su una ogni mille? Durante il tragitto si incontrano pochissimi turisti e fra questi non mancano quelli avventurosi che si spostano in bicicletta. Se per noi è difficile, potete ben immaginare come sarà per loro, che si arrampicano su queste montagne “himalayane”. Sono d’accordo con Pietro, la loro vera preoccupazione non dev’ essere quella di schizzarsi di fango i pantaloni! Intorno alle 11.00 si giunge a Lhatse, città famosa soprattutto per la le sorgenti termali di Dongaba, che inizialmente pensavamo di provare, progetto che dobbiamo però abbandonare proprio a causa dei lunghi tempi dovuti alle difficoltà del percorso. Più avanti si incontra la città di Shegar; è qui che l’autista decide di fermarsi per il pranzo, che noi decidiamo di consumare con i nostri classici alimenti nostrali. Ci si accomoda, comunque, all’interno della bettola- ristorante, ordinando the che il cameriere ci offre, quasi a sottolineare il proprio orgoglio a prescindere dal fatto di vivere lassù, isolati dal resto del mondo. Dopo Shegar, la strada corre abbastanza veloce, almeno fino a Tingri, posta ormai a 4.400 metri di altezza. Poi la strada si inerpica verso il passo più alto, a 5.220 metri. Qui la sosta è d’obbligo, immersi nella nebbia ed avvolti da un freddo vento rabbioso. Quindi si scende fino a Nyalam, un insignificante località lungo la strada, luogo di passaggio prima di arrivare al confine col Nepal. Si arriva alle 20.00, dopo oltre 12 ore di avventura sulle montagne a confine con quelle più alte del mondo. Un percorso di 400 chilometri che pochi, ci dicono, hanno avuto l’ardire di sperimentare, magari mettendo in conto molte più tappe. Le condizioni fisiche potete immaginarle, quelle del cosiddetto albergo altrettanto. Prima di rendercene conto fino in fondo si passa alla cena, servita al ristorante interno. Una buona cena… sorprendentemente! Poi si tenta di dormire. Sembra che gli ambienti siano abbastanza puliti, ma dobbiamo usare il bagno comune. Debbo raccontarvi, ironia della sorte, che prima di avventurarmi a 5.220 metri di altezza (e soprattutto seguendo le istruzioni della guida) ho fatto uso di un medicinale di nome Diamox, utile si dice a tenere sotto controllo le alterazioni vascolari, le varie pompe cardiache, i vari imput vascolari, ecc. ecc., ma è soprattutto un diuretico e così per tutta la notte è stato un via vai verso quella specie di buca collettiva, in fondo al corridoio esterno, che passa come il bagno di tutti. Insomma, doveva capitare proprio stanotte, ovvero l’unica con camera senza bagno? Ebbene, sì! E tuttavia si riesce a dormire con meno affanno, giacchè siamo oramai discesi di alcune centinaia di metri.

10 Agosto

La strada che da Nyalam porta a Zhangmu (verso il confine col Nepal) è davvero spettacolare. Un tratto breve di 30 chilometri, ripidissimo e scosceso, basti pensare che si scende da 3.750 a 2.300 metri. Un percorso fatto di ripetuti tornanti che si immettono in gole profonde, attraversate da cascate di acqua, canali e ruscelli. L’impatto è affascinante, anche se costeggiare questi ripidi dirupi alimenta un po’ la nostra ansia. Per fortuna il tempo è bellissimo, perché durante questo periodo di monsoni non sono rari i giorni nei quali la strada viene letteralmente inghiottita. Non sarà certo un caso che Nyalam, in tibetano, significa “porta dell’inferno”. Il nostro autista (forse perché desideroso di condurci al confine per riprendere la via di casa) affronta il tragitto con marcia spericolata, malgrado i nostri ripetuti richiami alla prudenza; servirà un rabbioso e deciso intervento di Pietro per riprendere una corsa più tranquilla e controllata. Intorno alle 10.00 siamo a Zhangmu, una bella cittadina di confine, abbarbicata lungo l’orlo di una serie infinita di tornanti, abitata da nepalesi e tibetani, frenetica ed animata, controllata da funzionari cinesi per fortuna molto svogliati, che sbrigano le pratiche doganali in quattro e quattrotto. La dogana è affollatissima e non si riesce a comprenderne la ragione, visto che non abbiamo incontrato che pochissimi turisti durante la nostra attraversata. Probabilmente tutto si ferma a Zhangmu è ciò giustifica la sua grande agitazione, il tanto commercio, i numerosi cambiavalute. Passati gli uffici doganali, si riprende verso il confine che dista ben 8 chilometri, attraverso un paesaggio sempre più verde, con un territorio ormai anche ben coltivato. Verso mezzogiorno siamo sul confine con il Nepal, dove si entra attraverso un lungo ponte di circa 200 metri, il “Friendship Bridge”. Il pulmino scarica i bagagli e ci lascia. Il tratto per raggiungere l’altro mezzo che ci attende in terra nepalese è abbastanza lungo, ma non c’è di che preoccuparci. L’organizzazione è perfetta, numerosi facchini cominciano a litigarsi le nostre valigie che in breve tempo sono già a destinazione. Anche questa dogana è molto sbrigativa, pur essendo assediata da una folla che sembra agitarsi per raggiungere Zhangmu. La località di confine è Kodari; qui ci attende il nuovo pulmino che ci porta a Kathmandu, lungo una strada tutto sommato accettabile, per quanto anch’essa tortuosa e mossa da numerosi saliscendi e strapiombi impressionanti. Il paesaggio si trasforma completamente, diventa collinare e soprattutto ricco di fiorente vegetazione tropicale di colore verde brillante, con coltivazioni e pascoli che confermano la fertilità dei terreni. Hanno la meglio le coltivazioni di risaie a terrazza, in genere affidate alle donne, avvolte in sari coloratissimi e leggiadri … e naturalmente eleganti con le loro collane, le loro spille, i loro orecchini. Si sarebbe giunti a Kathmandu molto presto, se non si fosse stati costretti a ripetute fermate dovute al ripetersi di guasti al pulmino. Si arriva all’amato Kathmandu Guest House a metà pomeriggio e dopo una breve sosta si riparte, ognun per conto proprio, per alcune visite ed acquisti nel centro del Thamel. Alle 19.00, puntualmente, siamo di nuovo nella hall dell’albergo, in quell’ambito salotto dove si confondono chiacchiere, programmi, saluti di arrivo e partenze. Abbiamo l’appuntamento con il nostro agente nepalese, quello che ha organizzato il viaggio in Tibet. Ci chiede una sorta di resoconto, che noi volentieri concediamo, caricando di molte critiche il comportamento della guida tibetana, soprattutto per la sua svogliatezza, il mancato rispetto degli orari e perfino, talvolta, la sua ingiustificata strafottenza. Se ne rammarica, ci spiega che il turismo tibetano è privo di organizzazione e molto approssimativo… poi, quasi a voler tentare di rimediare, ci invita a cena per l’ultima sera, prima della partenza. Si resta ancora nella hall, mentre Stefania e Gianni ci informano di aver deciso di rinunciare al viaggio a Pokhara, preferendo due giorni di completo riposo. Intanto gli amici della reception (ormai ci chiamano per nome) ci consigliano un albergo per la sosta a Pokhara, il Pokhara view. Si cena molto bene sulla terrazza di un noto ristorante, al settimo piano, da dove si domina l’intera vista sulla città illuminata. Più tardi, dopo esserci salutati, si va a riposare per essere pronti ad affrontare il viaggio dell’indomani.

11 Agosto

Alle 7.30, puntualmente, parte il pullman per Pokhara. Siamo appena una ventina e dunque si può viaggiare molto comodamente. L’uscita dalla città è assai problematica a causa di una periferia oltremodo congestionata. Il paesaggio è inizialmente molto simile a quello attraversato per arrivare a Kathamandu, poi si scende verso la valle (Pokhara è a 900 metri di altezza) e la campagna diventa ancora più varia, con coltivazioni molto rigogliose ed una agricoltura molto prospera per la presenza di terreni ricchi di acqua, dove viene coltivato sopratutto il riso, ma anche canna da zucchero e banane. 200 chilometri separano le due città, lungo una strada che affonda nella valle circondata da colline scoscese e gole rocciose che rendono molto affascinante il panorama circostante. Appena lasciata la città si è subito fermati ad un dei numerosissimi posti di blocco, a riprova del clima tutt’altro che tranquillo in atto nel Nepal in questo periodo. Subito dopo un’altra sosta, questa volta per fortuna dedicata alla colazione. Il viaggio riprende, si attraversano fiumi e canali, borghi di case lungo la strada, ma anche interessanti piccole città: Naubise, Malekhu, Benighat ed infine Mugling, esattamente a metà strada. Alle 11.00 un’altra sosta, quella per il pranzo presso un Resort nascosto all’interno di un parco molto rilassante. Il menu è vario, di ottima qualità e tutto compreso nel costo del biglietto. Si arriva a Pokhara alle 14.30, addirittura in anticipo rispetto al preventivato ed appena l’autobus si ferma siamo assediati da taxisti e proponenti sistemazioni alberghiere. Dal finestrino si scorge un grande cartello con scritto “Ciampolini x 4”; è il nostro che all’insaputa, ma allertato dagli amici del Kathmandu Guest House, è venuto a prenderci per portarci all’ hotel “ Pokhara View”. L’accoglienza è semplicemente straordinaria, il servizio senza pecche, le camere ottime: ancora una volta una sistemazione da consigliare senza riserve. Siamo a Pokhara, una città universalmente nota per le sue bellezze naturali, distesa lungo la costa del lago di Phewa, prossima alla splendida catena montuosa dell’Annapurna. Il suo clima è piacevolmente mite e da qui partono alcuni dei più interessanti trekking del Nepal. La città è turistica, ma pervasa da un’atmosfera rilassante, senza troppa frenesia, una specie di oasi dove i più vanno per ritemprarsi, così come facevano gli hippy, a partire dagli inizi degli anni ’70, magari approfittandone anche per assumere droghe facilmente commerciabili. La prima visita è riservata al vecchio bazar, appunto vecchio e deludente. Sotto alcune piante, seduti per terra, dotati di varie bandiere, c’è un gruppo di persone che ci incuriosisce. Io e Pietro ci avviciniamo e tentiamo di capire. Uno fra questi parla inglese e si scopre che sono rappresentanti del Congress Party, un partito con posizioni politiche molto vicine al nostro Centrosinistra, un partito che in passato ha governato il Nepal, avversario degli estremisti maoisti, così come, naturalmente, della politica che il Re sta conducendo dopo aver, in pratica, sciolto il Parlamento. Si svolge un’ interessante discussione, quando ad un certo punto domando se conoscono il nostro Massimo D’Alema. Tutti (ad eccezione del nostro interlocutore che parla inglese e che ci dice di apprezzare D’Alema) scambiano la domanda per una domanda sul Dalai Lama; il tutto si risolve con una grande risata collettiva, specialmente dopo aver chiarito l’equivoco. Si rientra nel tardo pomeriggio e ci si rinfranca nel curatissimo giardino dell’ Hotel, approfittando del silenzio e della quiete che tanto abbiamo meritatamente atteso. Poi si cena all’aperto, in un altrettanto bellissimo giardino, illuminato da fiaccole e candele, dove insieme ad ottimi piatti di pesce si gode un tipico spettacolo di balletti, musiche e canti che rendono la serata particolarmente suggestiva.

12 Agosto

La sveglia è per le 5.45 e la partenza alle 6.00 con il taxi dell’ hotel per arrampicarci, prima dell’alba, sul punto panoramico di Sarangkot, nei pressi di Pokhara. Da qui si domina un panorama vastissimo: si va dal lago, al massiccio dell’Annapurna, illuminato dai primi raggi di sole. Si rientra alle 7.30 per la colazione, poi si visita il lungolago, attraversando interamente il centro della città. E’ particolare lo stile delle sue costruzioni (noto come “stile pokharelli”), dovuto all’uso di pietra bianca tagliata, usata come rivestimento che rende, appunto, omogeneo lo stile della città. Il centro è costituito da un susseguirsi ininterrotto di strutture ricettive che in gran parte si affacciano sul lago. Agosto è un mese di bassa stagione, si incontrano pochissimi turisti, in prevalenza italiani e spagnoli. E si incontrano essenzialmente la sera, quando rientrano dall’avventura dei trekking. Si passa poi alla visita del Pokhara Museum, nella zona attigua al vecchio bazar. Il museo è interessante per l’allestimento di un percorso che tenta di rappresentare il corso della loro storia locale, a partire dall’esposizione di materiali di testimonianza etnica, per passare alla descrizione dei riti della vita del villaggio. Il tempo dedicato alla visita non è superiore ad un’ora e così all’ora di pranzo si rientra in hotel, dove ci si concedono le ultime pietanze nostrali: tonno con contorno di pomodori, acquistati al mercato. Ci siamo alzati prestissimo e concederci una pennichella è come rispondere ad un’esigenza oggettivamente salutare e meritata. A metà pomeriggio, però, siamo di nuovo in movimento, pronti ad affrontare un suggestivo attraversamento del lago in barca. Dal centro del lago di riesce a raccogliere interamente la dimensione della catena delle montagne che lo circondano. E quando siamo al momento del tramonto, come a noi accade, lo scenario diventa particolarmente struggente. Rientrati a riva, ci si rilassa con una passeggiata attraverso l’intero centro più vissuto di Pokhara. La scelta di un ottimo ristorante per la cena non è compito facile, data la vasta offerta. Si sceglie soprattutto in virtù del nostro desiderio di vivere l’atmosfera del lungolago. Ed anche in questo caso la cena è allietata dalla rappresentazione di riti teatrali e musiche tipiche, che riescono ad affascinare le nostre curiosità, insieme ad un menù caratterizzato da piatti che alternano gusti nepalesi e addirittura giapponesi. Un ottimo piatto di “tempura” (pesce fritto alla giapponese) fa il paio con l’ottima esibizione di musica locale. La festa ha temine alle 23.00, dopo di che si rientra a piedi, approfittando delle nostre residue forze, ancora non totalmente spese.

13 Agosto

Dopo la colazione ed i calorosi saluti con tutto il numeroso personale che per due giorni ci ha coccolati come non mai, si viene accompagnati alla stazione del pullman e da qui si parte, alle 7.45, per il rientro a Kathmandu. Stesso percorso, stessi tempi, stesse soste. E’ una giornata molto calda, tant’è che l’aria condizionata è talmente forte da rendersi insopportabile. Io, che non la sopporto, chiedo ed ottengo di essere ricevuto nella cabina dell’autista e dell’assistente, areata naturalmente. L’arrivo alla periferia di Kathmandu è in perfetto orario, purtroppo però è talmente congestionata da farci perdere oltre un’ora. Alle 14.00 siamo in hotel e con Gianni e Stefania ci scambiamo le esperienze maturate separatamente, poi si torna nel nostro ormai affezionatissimo quartiere, dunque si sale su una delle nostre abituali terrazze per consumare un aperitivo, mentre si ciancia del più e del meno e si cominciano ad immaginare i preparativi della partenza. A cena, stasera, come già anticipato, siamo ospiti dell’amico dell’agenzia del viaggio in Tibet, che ci fa provare un nuovo ristorante ed anche piatti particolarmente particolari, anche se (poverino!) deve invitarci a non consumare birra, dato l’alto costo che neppure l’agenzia sopporterebbe facilmente. Fa parte del gruppo anche una giovane coppia di spagnoli; con loro si parla delle impressioni ricevute sul Nepal, ma anche di tante altre questioni, sempre ovviamente di interesse culturale e turistico. Il ristorante è molto frequentato, soprattutto da gruppi organizzati e di uno di questi fa parte una collega ed amica fiorentina di Stefania. Com’è piccino il mondo! Non resta che un calorosissimo saluto con il nostro amico dell’agenzia, al quale promettiamo tutta la collaborazione ed ospitalità possibile quando, com’è suo desiderio, riuscirà a visitare l’Italia. Poi tutti a letto, dopo però aver riordinato almeno parte delle nostre valigie, anche per renderci conto se sia possibile o meno arricchire ulteriormente l’elenco, ormai copioso, degli acquisti.

14 Agosto

E’ l’ultimo giorno e lo dedichiamo interamente alle più varie divagazioni su Kathmandu. Prima un lento ritorno a piedi in Durbar Square, attraverso un itinerario che questa volta ci gustiamo intensamente e senza fretta, quindi una lunga sosta seduti sulle scale dei suoi monumenti a curiosare il perpetuo via vai della gente ed ancora la visita ad alcune mostre ed altri palazzi. Sulla via del ritorno ci si sofferma, di quando in quando, a salutare i vari gestori di locali e negozi che abbiamo frequentato che, purtroppo, dobbiamo deludere per la nostra impossibilità materiale di fare altri acquisti. Le strade del Thamel ci sono familiari e noi lo siamo a loro e non vi nascondo la sincera nostalgia nel doverle abbandonare. Nel pomeriggio ci completano i preparativi, poi si parte per l’aeroporto. Si lascia Kathmandu, questa classica città carovaniera fra India e Nepal, una città affascinante ed immutabile nella sua intimità, ancora oggi pronta e capace di resistere all’impropria invasione di culture estranee alle sue radicate tradizioni millenarie. Anche per questa sorta di meritato orgoglio è una città che mi ha completamente preso. Soltanto chi è capace di difendere gelosamente le sue tradizioni, la sua cultura, i suoi riti, i suoi tempi è e sarà capace di scommettere apertamente su un confronto dinamico e paritario. Io ho vissuto così Kathmandu e così voglio continuare a pensarla, anche di fronte ad aggressioni di vario genere che, non di rado, essa è costretta a subire e sopportare.