Parlamento Regionale degli studenti: un’esperienza di educazione alla politica

Fare politica

Fare politica è interpretato da ogni generazione in modo diverso.
Se si intende per politica – politické –  arte e scienza di governo che si esplicita nell’organizzazione e amministrazione dello Stato e della vita pubblica, in questi ultimi anni abbiamo vissuto esperienze diverse: la politica spettacolo, che ha privilegiato la spettacolarità della comunicazione a scapito della trasparenza e della credibilità, servendosi in abbondanza dei mass-media; la politica delle mani pulite improntata a una correttezza morale di fondo; la politica del carciofo che ha cercato di ottenere le cose gradatamente, una per volta; la politica del piede di casa tutta presa da interessi locali e circoscritti. Insomma lungimirante o pragmatica, ottusa o spregiudicata, fantasiosa o machiavellica, la politica del paese reale si sta facendo sempre più astratta e fumosa, capace di produrre più politiconi che politicanti.
Le suggestive metafore potrebbero continuare per molto, comunque il fare politica si è progressivamente allontanato dalla gente comune, fino a far diventare massa il cittadino, trasformando i cives in clientes. E invece politikòs è derivato di polites, cittadino.
Ma questo è stato forse un problema di molti tempi, a giudicare da quanto scriveva  Charles-Louis de Montesquieu. “L’ambizione nell’ozio, la bassezza nell’orgoglio, il desiderio di arricchire senza fatica, l’avversione per la verità, l’adulazione, il tradimento, la perfidia, l’inadempienza dei propri impegni, il disprezzo dei doveri del cittadino, la paura della virtù del principe e la speranza riposta nelle sue debolezze, e più ancora, il ridicolo gettato perpetuamente sulla virtù, formano, io credo, il carattere della maggior parte dei cortigiani, ricorrente in tutti i luoghi e tutti i tempi.”
Essere cittadino è come essere “uomo virtuoso, perché per essere uomo virtuoso bisogna avere l’intenzione di esserlo, e amare lo stato di per sé, e non nel proprio interesse.”[1]
Cittadino è uomo politico e uomo sociale insieme, i suoi pensieri, le sue abitudini, le sue prassi quotidiane sono orientate nella sfera pubblica, meno in quella privata. E’ attivo e critico, propositivo e autodisciplinato, non conosce la pigrizia dell’abitudine. Ha interiorizzato le regole e le ha messe alla prova con tenacia e pazienza, non le ha assunte solo formalmente.
Componente fondamentale del civis è il senso di appartenenza a una comunità, il sentirsi parte attiva di un luogo, frutto di una storia e di una cultura.
Ma un forte senso dell’identità storica e culturale non può esaurirsi in un localismo volto alla difesa dei confini, subito pronto a erigere mura. Il cittadino capace di dialogo, allarga il proprio “compasso dell’orizzonte” – per dirla con Remo Bodei – verso dimensioni nazionali e internazionali, arricchendo, attraverso pratiche sociali e culturali, se stesso e gli altri. La diversità diventa così confronto, rispetto e ricchezza.
Il legame identitario con la propria cultura è così forte, che il cittadino non ha paura a metterlo in gioco. Non erige barriere (visibili e invisibili), non costruisce moenia, ma intesse rapporti, senza paure, né opportunistiche tolleranze, costruendo una rete di solidarietà, mettendo in comune i suoi munus. Chi è padrone del suo dove può naturalmente proiettarsi verso l’altrove. Padre Ernesto Balducci lo definiva “uomo planetario”.
Lo scenario europeo però è dominato da una sostanziale incapacità a coniugare interessi nazionali contrastanti con l’interesse comune, a risolvere pesanti problemi economici, a venire a capo di numerose problematiche identitarie, un’omologazione planetaria rischia poi di annullare le diversità. Ma la recente antropologia ci ha insegnato che la cultura non può essere un alibi per tracciare confini, intesi come linee nette e invalicabili, bensì ogni cultura è un crocevia di storie, di idee, di sogni e di identità[2]. Il concetto di diversità quindi è insito in ciascuno di noi. Ognuno è diverso titola un celebre pezzo di Vasco Rossi.

Giovani e politica

Spesso sentiamo dire che i giovani non si interessano di politica con l’intenzione di sottolineare la loro scarsa partecipazione alla vita politica del momento. Credo che la caratteristica idealistica, propria della gioventù, porti a considerare negativamente la politica intesa come modo di comportarsi astuto e strumentale, spinto dall’ambizione e dal profitto, e a ritenere la politica, intesa come pratica di governo, un mondo molto lontano dal loro. Per cui prevalgono passività e disinteresse o comunque si diffonde la delega della politica a una sfera separata, che ha provocato un progressivo allontanamento di troppe persone dalle istituzioni.
Molti giovani però sentono comunque l’etica dell’impegno e si dedicano a molte attività che potremmo definire come forme diverse del tradizionale concetto: organizzano manifestazioni di protesta, raccolgono firme, presentano petizioni, partecipano a numerose forme di volontariato.
Viviamo comunque in un’epoca in cui prevale un’opinione pubblica ottusa e indifferente, che esprime modi di pensare e stili di vita improntati più al nichilismo che alla partecipazione – eppure Libertà è partecipazione si cantava un po’ di tempo fa – così passività e indifferenza alimentano una sorta di disincanto collettivo, nei casi migliori i valori dichiarati non sostanziano i comportamenti quotidiani e quindi il compito di educare alla politica diventa difficile, ma non impossibile.
In questa nostra società così complessa, fluida, liquida – come la definisce Baumann [3] – comunque segnata da un’omologazione planetaria, è in crisi il concetto di appaesamento che è preliminare all’acquisizione della pratica della partecipazione. Sentirsi parte di una comunità spinge a impegnarsi per le comuni radici.
Il pericolo dell’apatia politica diventa quindi reale e il mi riguarda un’espressione affascinante, ma difficile a concretizzarsi nelle scelte di tutti i giorni. Non si può parlare di processo democratico esteso e di intenso dibattito pubblico. Né di etica del servizio pubblico.
Ma quando possiamo definire civile una società? Quando “promuove la diffusione piuttosto che la concentrazione del potere, indica mezzi pacifici anziché violenti, agisce per la parità di genere e l’equità sociale, costruisce solidarietà orizzontali piuttosto che verticali, incoraggia la tolleranza, il dibattito e l’autonomia di giudizio anziché il conformismo e l’obbedienza.”[4]
L’educazione ha quindi il compito di preparare il terreno per far germogliare questo tipo di cittadini, atti a rendere civile la società.
Educare alla politica diventa quindi un compito quanto mai complesso, che non può esaurirsi nell’azione di una singola agenzia educativa. Il termine complesso deriva da cum plectere che presuppone due o più parti interdipendenti (cum) che si coordinano per plectere, flettere e trasformare, comprendere e plasmare in un impegno comune.
Quindi non può essere solo compito della scuola un’educazione alla partecipazione alla cosa pubblica, ma il frutto dell’interconnessione di più agenzie educative.
La famiglia, per esempio, è il luogo naturale dell’educazione: parole e gesti, scelte e comportamenti quotidiani, costituiscono il terreno per costruire un orientamento equilibrato fra sfera pubblica e sfera privata. Fin dall’inizio può caratterizzarsi come luogo del sociale o luogo dell’individuale, atto a formare cives o clientes.
Senza dubbio un’educazione familiare all’autonomia e alla responsabilità, all’apertura e al rispetto, praticata fin dai primi anni di vita, costituisce un terreno favorevole sul quale innestare il lavoro della scuola e di altre istituzioni. Il nucleo del pensiero democratico è sempre stato il concetto di libertà intesa come autonomia e cioè come capacità di dar leggi a se stessi, secondo la famosa definizione di Rousseau.
Poi, una partecipazione consapevole alla vita della scuola, con il pieno esercizio dei diritti e dei doveri, è senz’altro altamente formativa. Ma sappiamo purtroppo quanto troppo spesso siano contraddittori i modelli educativi familiari e quanto sia necessaria e improcrastinabile una seria riforma degli organi che dovrebbero garantire la gestione democratica della scuola.
Pur restando in fiduciosa attesa delle riforme a venire, gli studenti toscani hanno la possibilità di usufruire di importanti occasioni per sperimentare il loro desiderio di essere ascoltati e di essere considerati soggetti politici: le Consulte provinciali e il Parlamento Regionale degli studenti, esperienze concrete per poter assumere un ruolo propositivo e partecipe.
Coinvolgere giovani altrimenti lontani dalla politica è come aprire una breccia nel muro che tradizionalmente separa politici e gente comune, nell’attesa di ridefinire in modo organico i rapporti fra individui, famiglie, società civile e stato, in un sistema di connessioni culturali e politiche.

I saperi di cittadinanza

L’esperienza del Parlamento Regionale degli studenti – voluta dal Consiglio Regionale – per poter esprimere a pieno tutte le sue potenzialità, dovrebbe costituire una parte organica e non aggiuntiva del Piano dell’Offerta Formativa, che ogni anno le scuole elaborano, ed essere preceduta da una riflessione profonda su tutto il processo di insegnamento-apprendimento ripensato in funzione di un’educazione alla cittadinanza.
I saperi di cittadinanza sono compiti nuovi e difficili che questa società impone alla scuola: il paesaggio attuale è assai problematico, segnato da una forte turbolenza antropologica intessuta di continui mutamenti, che presuppongono nuove negoziazioni e inedite ridefinizioni. C’è bisogno quindi, e con urgenza, di nuovi saperi. E non sono saperi che si possono aggiungere a quelli tradizionali, ma devono essere costruiti all’interno dei curricula disciplinari. Vediamo alcune possibilità.
Il loro fondamento si pone in un potenziamento di alcuni concetti base, in stili cognitivi problem solving, in atteggiamenti di scoperta e prassi di creatività, in procedimenti elaborativi della mente. Tutto questo per quanto riguarda il soggetto. Ma devono essere preceduti da un lavorio preliminare che riguarda la scuola nel suo complesso. Affermare davvero, non solo a parole ma in tutti i momenti dell’azione educativa, la centralità dello studente, il rispetto delle sue idee, dei suoi stili cognitivi e dei suoi interessi; privilegiare metodologie di apprendimento metacognitive, problematiche e creative; affermare l’autorevolezza e non l’autoritarismo, con una prassi valutativa non punitiva, ma partecipata e orientativa, capace di potenziare la consapevolezza di sé e di abituare al confronto delle opinioni, sono azioni che faciliterebbero non di poco il processo di crescita dei singoli nella prospettiva della cittadinanza. Bisogna considerare però il permanere di alcuni vizi di fondo imperanti nelle scuole che di fatto contrastano questa crescita.
Una pratica didattica autoritaria, falsamente egalitaria senza il rispetto delle differenze, può educare al rispetto delle differenze? L’abitudine consolidata in quasi tutti gli ordini di scuola alla trasmissione dei saperi e alla loro acquisizione mnemonica, non abitua alla ripetitività, alla superficialità, alla convinzione della non possibilità dei cambiamenti? Un permissivismo facile e irresponsabile non contrasta con l’assunzione di responsabilità? Quanta democrazia c’è in una classe? In una classe, le regole sono imposte o sono costruite insieme tanto da farle germogliare nell’interno dell’individuo? E poi il tutto e subito, la semplificazione, l’anticipazione, la fretta, non facilitano certo la formazione della pratica di risoluzione dei problemi: per la quale occorre lentezza, rigore, elasticità e modestia nel riconoscimento dell’errore e nell’assunzione di responsabilità.
C’è poi un importante lavoro da fare sui curricula delle discipline, per accentuarne la formatività democratica. Per esempio un curriculum di storia non può esaurirsi in una elencazione di fatti, ma dovrà trasformarsi in capacità di dare senso e significato a quei fatti. Una matematica problematica e creativa, non assiomatica e riproduttiva, potrebbe contribuire alla formazione di menti aperte e flessibili, critiche e pluralistiche. Ma gli esempi potrebbero continuare con qualsiasi disciplina.
Essenziale appare quindi trasformare le conoscenze in competenze. E questo è un lavoro di tutti, non solo di alcune discipline.
I saperi dovrebbero essere costituiti da due tipi di competenza: una che si potrebbe definire di contenuto, che parte dalle discipline e dai loro concetti base, scanditi per gradi e per ordini di scuola; una che si potrebbe definire di forma, una forma mentis transdisciplinare, orientata in senso scientifico e critico, basata sull’esercizio del dubbio e della ricerca. [5]
Ma i saperi implicano anche un saper fare capace di renderli produttivi, trasferibili, ricollocabili in situazioni diverse per la ricerca di un’altra pratica di soluzione del problema.
Quindi i saperi di cittadinanza sono costituiti da conoscenze e competenze, sono frutto di un’intelligenza competente capace di governare le conoscenze, che scaturisce e si forma dalla cultura e dall’esperienza insieme, sono il prodotto di un’intelligenza che si predispone ad apprendere ad apprendere. Costituiscono la caratteristica essenziale di quelle menti aperte abituate a percorrere le vie trasversali dei saperi e a esercitare la riflessività sugli apprendimenti. Sono saperi sempre in cammino – fanno domande e valicano confini – possessori di contenuti non dogmatici, ma critici e sempre pronti a trasformarsi in problemi.
Conformemente a quanto si può leggere in studi internazionali, per competenza si intende quindi una combinazione di conoscenze, abilità e attitudini adeguate ad affrontare una situazione particolare. Le competenze chiave sono quelle che contribuiscono alla realizzazione personale, all’inclusione sociale, alla cittadinanza e all’occupazione. Lo sviluppo della società della conoscenza in Europa fa aumentare la domanda di competenze chiave nella sfera personale, in quella pubblica e in quella professionale, ma si registra un’attenzione sempre più marcata per la coesione sociale e lo sviluppo di una cittadinanza democratica. Perché non bastano i diritti a trasformare un suddito docile e indifferente, in un cittadino attivo e partecipe. Occorre costruire l’abitudine e la padronanza del loro esercizio.
E’ importante vivere in uno Stato democratico, ma è altrettanto importante la capacità di esercizio dei diritti e dei doveri propri di uno Stato democratico. Questo dovrebbe essere il sostrato basilare di qualsiasi professione o specializzazione.
Il programma di lavoro “Istruzione e formazione 2010” adottato dal Consiglio di Barcellona nel marzo del 2002, invoca una maggiore integrazione delle competenze di base nei curricoli e il loro apprendimento e mantenimento per tutto l’arco della vita.
Le otto competenze chiave sono così precisate:

  • comunicazione nella madrelingua
  • comunicazione nelle lingue straniere
  • competenza matematica e competenze di base in scienza e in tecnologia
  • competenza digitale
  • imparare a imparare
  • competenze interpersonali, interculturali e sociali e competenza civica
  • imprenditorialità
  • espressione culturale.

Compito primario della scuola diventa quindi la formazione del cittadino.
La scuola deve investire molto in questo compito sociale: scuotere, stimolare, promuovere ideali e utopie. Alla base di qualsiasi tipo di istruzione e formazione stanno proprio i saperi di cittadinanza, capaci di far crescere cittadini, pronti a riscoprire il fascino dell’agorà, di una politica che non sia mero esercizio di potere o governo dell’esistente, ma dialogo, dibattito costruttivo, incontro di idee e di progetti, rispetto di chi è portatore di diversità. Insomma è cittadino chi è capace di dare senso al proprio mondo e non chi diventa comoda pedina dei più furbi.

Il Parlamento Regionale degli studenti in Toscana

Il Parlamento è un organo collegiale di carattere rappresentativo-politico mediante il quale il popolo esercita il potere. Questa definizione si comprende a pieno se è stata realizzata l’acquisizione e il padroneggiamento di importanti concetti e competenze di base: la partecipazione, l’elezione, la rappresentanza, la responsabilità. Elencarli o spiegarli dal punto di vista cognitivo porta a risultati parziali, facili da dimenticare; restano sulla superficie delle persone, senza andare a intaccare il profondo spessore dell’essere.
Chiamare alcuni studenti a sperimentare i meccanismi della costituzione di un Parlamento Regionale e della sua azione, assume invece una particolare rilevanza educativa: si va oltre la conoscenza spostandosi nella dimensione esperenziale della costruzione del sapere.
I meccanismi dell’elezione e della rappresentanza aiutano l’individuo a uscire dai confini del sé, a considerarsi parte attiva di un gruppo, a immedesimarsi nei suoi interessi, a identificarsi nel gruppo, ad assumerne riferimenti etici, codici e linguaggi. La responsabilità poi presuppone l’acquisizione di un’importante consapevolezza: c’è da farsi carico di un’azione per raggiungere un risultato, che riguarda non solo l’individuo ma l’intero gruppo. L’io e il tu, devono lasciare il passo al noi. Il privato deve lasciare il posto al pubblico. E non è cosa da poco per adolescenti che stanno ancora lavorando per tracciare i confini delle proprie identità.
Siamo in un’età in cui – come cantava Battisti – “l’universo trova spazio dentro me, ma il coraggio di vivere, quello, ancora non c’è”. Il problema è consolidare il coraggio di vivere senza perdere l’universo. Fare in modo cioè che i giovani chiamati a svolgere questa esperienza, ne assumano le regole, senza perdere quella dimensione entusiastica e utopica caratteristica della loro età. Un’età in cui la regola è proprio la non regola.
C’è quindi bisogno di abituarsi all’uso di modalità relazionali positive, di rendersi conto dell’importanza di seguire regole ben precise, scandite, per esempio, dai concetti di maggioranza e opposizione.
E allora l’educazione civica perde la tradizionale percezione di materia accessoria, noiosa e trascurabile, per farsi un sapere applicato, sostanziato dall’uso concreto di concetti diversi e contigui che diventano orientatori di azioni e di prassi da seguire: convocazione, sospensione, mozione, votazione, numero legale, ecc.. Insomma si comprende bene come la politica presupponga un’etica capace di coniugarsi con la scienza dell’organizzazione e con la sociologia, una teoria – la conoscenza che diventa prassi, una formazione della mente che costruisce, nel fare, una competenza.
Nel Parlamento Regionale degli studenti toscani si impara davvero, facendo davvero. E tale competenza di micropolitica formatasi nel presente, è destinata a consolidarsi nel futuro.
“Partecipare alla società civile richiede un grande dispendio di tempo: per questo in genere non rappresenta una costante nell’arco della vita di un individuo. L’esperienza maturata si rivela tuttavia una sorta di educazione civica, in grado di influenzare la cultura familiare dei singoli, di entrare a far parte del loro linguaggio quotidiano, condurli a guardare la televisione con meno frequenza e con occhi nuovi (impresa non da poco). Può lasciare in dono ricordi e risorse riattivabili in altre fasi del corso, normalmente lungo, della vita di ciascuno.”[6]

“Imparare democrazia”

Un’educazione alla cultura costituzionale e civile, alla cittadinanza attiva e democratica non può esaurirsi in un’astrazione, in un prodotto della mente dato per acquisito una volta per tutte, ma dovrà diventare un sapere produttivo capace di sviluppare continuamente un pensiero positivo.
Una società democratica sempre più partecipativa imporrà continuamente l’uso di una serie di competenze: organizzarsi e interagire, scegliere e progettare. Senso della previsione e della fattibilità. Flessibilità e determinazione. Capacità di ridefinire senso e significato delle cose. E una spinta etica capace di superare l’indifferenza e il disinteresse diffusi, per farsi partecipazione, cura, sollecitudine, dedizione.
Insomma non si tratta tanto di insegnare che cosa è la democrazia, o di ricercare una pedagogia della democrazia, ma di insegnare a essere democratici. D’altra parte sappiamo che non è la conoscenza della virtù a formare i virtuosi. Anzi ideali e virtù sono insegnabili?
L’importante è sapere, ma il compito degli educatori comunque non può fermarsi qui.
Il concetto di democrazia, per esempio, una volta appreso deve trasformarsi in competenza democratica, in un agire responsabile capace di sostanziare tutte la azioni del vivere civile. Deve essere ben collocato dentro il soggetto, affinché sia continuamente usabile, e dentro un processo in continuo sviluppo, affinché sia continuamente ridefinibile.
Perché la democrazia è difficile (non è dogma, è persuasione), è lenta (non va in aereo, ma  a piedi), è riflessiva (non pensa con il computer, pensa con il cervello), è tortuosa (non guarda solo al qui e ora, ma al prima e al dopo), non sta mai ferma (si trasforma e si ridefinisce), stanca, viene a noia (usa il congiuntivo più che con l’indicativo), è complessa e faticosa (non considera solo la realtà ma il suo sconfinamento), ha molti nemici (specialmente fra gli amici), non si riproduce (anzi genera apatia politica), chiama in causa sempre, insomma dome dice Gustavo Zagrebelsky “la democrazia non promette nulla a nessuno, ma richiede molto a tutti”. [7]
E allora, affinché non si giunga al paradosso che avere più democrazia, significhi avere meno cittadini, occorre imparare democrazia attraverso la pratica della cittadinanza. Compito difficile, certo, ma non impossibile.
I cosiddetti giovani del ’68, pur fra tante contraddizioni, possono adesso testimoniare quanto sia stata importante per la loro formazione e per la società tutta quell’esperienza di attivismo, di partecipazione, di innamoramento di tutto che caratterizzò quegli anni. Eravamo innamorati di tutto e di tutti, ma soprattutto della politica come crescita e della libertà come regola di vita. Eravamo proiettati nel fuori, appena rotte le barriere del dentro. Al luogo della casa sostituimmo il non luogo della strada. Il fascino del “vietato vietare” dice molto, anche i suoi limiti.
Ci nutrivamo – come cantava Joan Beaz – “di pace, d’amore e di musica”.
Nel ricordo di questa epoca storica, così vicina nel tempo, ma molto lontana da loro, mi auguro che i giovani di oggi ritrovino in loro stessi l’orgoglio di avere molto da dire e la pretesa di essere ascoltati, con un nuovo innamoramento verso la politica.
Perché di questo c’è bisogno.
Ancora una volta, per esprimerne il senso, cerco aiuto in un cantautore, Roberto Vecchioni.

E figlia, figlia
non voglio che tu sia felice
ma sempre contro
finché ti lasciano la voce;
vorranno
la foto col sorriso deficiente,
diranno:
‘Non ti agitare, che non serve a niente!’
e invece
tu grida forte
la vita contro la morte!

In un regime adultocratico come quello che viviamo, non è facile essere giovani, allora a maggior ragione non si può perdere alcuna occasione per affermare con forza il diritto di esserci e di contare.
Come fanno ogni anno molti studenti eletti nel Parlamento e nelle Consulte dove “imparano democrazia” per essere cittadini.

[1] Charles-Louis de Montesquieu, Lo spirito delle leggi, citato in G. Zagrebelsky, Imparare democrazia, Einaudi, Torino 2007, p. 96.
[2] M. Aime, Eccessi di culture, Einaudi, Torino 2004.
[3]  Z. Baumann, Vita liquida, Laterza, Bari 2006
[4]  P. Ginsborg, La democrazia che non c’è, Einaudi, Torino 2006, p.p. 62, 63.
[5] F. Cambi,  Saperi e competenze, Laterza, Bari 2004; H Gardner, Formae mentis, Feltrinelli, Milano 2002.
[6] P. Ginsborg, Il tempo di cambiare. Politica e potere della vita quotidiana. Einaudi, Torino 2004, p. 165.
[7] G. Zagrebelsky, Imparare democrazia, Einaudi, Torino 2007.