Miti, modelli e linguaggi giovanili : generazione anni ‘90

I digital natives, come qualcuno chiama i ragazzi delle nuove generazioni, sono molto diversi dalla generazione dei loro genitori e dei loro insegnanti,di quegli adulti significativi che dovrebbero accompagnare e plasmare la loro crescita. I trenta-quaranta anni che li separano sono un’epoca storica immensamente più grande rispetto a quella che separava le generazioni precedenti; l’accelerazione del mutamento ha sconvolto codici e linguaggi, comportamenti e valori, stili di vita e culture, ha creato diversi modelli di estetica.

Le innovazioni e gli strumenti tecnologici che si sono inseriti nella vita dei giovani anni ‘90, tanto da sedimentarsi nella loro crescita, hanno determinato una forte differenziazione nelle modalità e negli strumenti dell’apprendimento, nel tipo e nella quantità delle competenze da impiegare nella quotidianità.

Possiamo parlare addirittura di un cambiamento della stessa cultura patriarcale che ha improntato tanti secoli della nostra storia, perché il padre non è più depositario della cultura dei saperi quotidiani. Se il computer presenta qualche problema, è il figlio che lo risolve con maggiore facilità. Si sono infatti moltiplicate le tecnologie che accompagnano la nostra vita e i giovani le padroneggiano con naturalezza e abilità. Anzi, potremmo dire che questa è una generazione che comunica con strumenti.

Gli adulti invece dimostrano spesso diffidenza, non ne comprendono a pieno il ruolo facilitatore, a volte temono che impoveriscano l’intelligenza.

La presenza di nuove tecnologie a casa e a scuola e il differente uso che ne fanno giovani e adulti, aumenta il divario generazionale.

Occorre quindi che docenti, genitori e comunque tutti coloro che svolgono un ruolo attivo per la crescita dei giovani, cambino il punto di vista, rovescino il cannocchiale per focalizzare e conoscere con maggior precisione il mondo giovanile, mettendo da parte pregiudizi e facili demonizzazioni. Ogni cultura giovanile si è sempre contrapposta alla cultura dominante, coniugando le modalità di contrapposizione in modi diversi e diversamente spettacolari. Basti pensare al ’68. Ma accade un fatto singolare: quelli che sono stati più contestatori in gioventù, spesso sono quelli meno aperti ad altre forme di contestazione e di differenziazione.

Insomma “il futuro non è più quello di una volta”, si legge su un graffito, e ha ragione l’anonimo estensore, perché è un futuro che è già presente, e spiazzante nella sua ingovernabilità.

Molto diverso questo homo zappiens dal suo diretto predecessore homo videns: la generazione anni ’80, quella cresciuta con i primi cartoni giapponesi (Remy e Ape Maya), nutrita di sofficini e Mulino Bianco, che giocava con Mazzinga Z, aveva come modelli Madonna, Ambra e Fiorello, guardava Non è la RAI , si cimentava con il Karaoke e sognava con gli 883, che non erano un numero di telefono

Erano ragazze e ragazzi sempre più soli davanti a una TV baby sitter e surrogato della famiglia, che esorcizzava le sue assenze comprando per i figli sempre più cose. Case sempre più piene di cose e sempre più vuote di affetti.

La comunicazione registrava una netta prevalenza di linguaggi visuali, la vita subiva una progressiva accelerazione, e allora, mentre il libro agonizzava, anche il procedere del pensiero si semplificava e diventava debole.

Omologazione sì, ma anglo-americana: lo spettacolo si guardava e prevalentemente in TV.

Adesso lo spettacolo si fa: con il corpo e con tutte le parti del corpo, con le tecnologie e con tutti gli strumenti possibili; l’homo zappiens si esibisce, spettacolarizza se stesso e il suo quotidiano, anzi, se il quotidiano non viene registrato e diffuso in internet, nemmeno esiste. Il web cambia tutto. Il mouse e il telefonino sono appendici corporee. Il diario dei segreti è il blog.

L’omologazione si estende a modelli planetari, perchélenuove tecnologieaccorciano le distanze e acceleranole vite,sincopando il tuttoa ritmisempre più forti. La TV langue (magari si fa zapping) e il libro, mentre è sul punto di tornare al creatore… è salvato da Moccia; si gioca con la playstation e il telefonino; sull’I-pod si ascolta Tiziano Ferro, Fabri Fibra e gli Articolo 31, che non è un articolo della Costituzione Italiana…

Si vive in una società liquida e sfuggente, dove la fede nel progresso è sostituita dall’immagine di un futuro cupo e indefinibile, segnato più dall’illusione che dal sogno, da una presentificazione senza passato e senza incanto, da una brutalitàche identifica la libertàcon il dominio sconclusionato di sé, del proprio ambiente e degli altri. L’individuo è oggetto di se stesso e dei più forti, che nascondono la loro debolezza nell’arroganza e nell’esibizione della violenza. Avvolti in un’atmosfera esistenziale che genera paura, si vive in uno stato di allarme perenne, dove è concesso, se si è potenti, di soddisfare le proprie voglie, ma è sempre più difficile provare il desiderio, così avviluppati dal tutto e subito.

Alessandro Baricco parla di “mutazione”.

Gli insegnanti, appartenenti alla categoria dell’homo sapiens, si trovano sempre più di fronte ai silenzi e agli sguardi smarriti dei mutanti;ancora non si erano abituati all’homo videns che si trovano davanti l’homo zappiens.

“I Barbari, sono una specie nuova, che ha le branchie dietro le orecchie e ha deciso di vivere sott’acqua” o si tratta del normale duello fra generazioni?

“Mi piacerebbe guardare quelle branchie da vicino. E studiare l’animale che si sta ritirando dalla terra, e sta diventando pesce. Vorrei spiare la mutazione, non per spiegarne l’origine (questo è fuori portata), ma per riuscire anche lontanamente a disegnarla. Come un naturalista d’altri tempi che disegna sul taccuino la nuova specie scoperta nell’isolotto australiano. Oggi ho aperto il taccuino.”[1]

Anche noi dobbiamo aprire i nostri taccuini.

Walter Benjamin non cercava di capire com’era il mondo, ma come stava per diventare. Erano le mutazioni, le trasformazioni a interessarlo: dopo Proust, Baudelaire, Ghoete, Marx, Adorno ed Erodoto… cosa fa Benjamin? prende e si mette a studiare Michey Mouse.

Anche noi bisogna seguire la medesima strada, studiare il loro banale quotidiano, capire le dinamiche del loro modo di pensare, di comportarsi, di comunicare, di amare… quali sono i loro sogni, i loro valori e le loro utopie. Ma ci sono sogni, valori e utopie o sono così cambiati che non li riconosciamo più? E’ una perdita di senso o un nuovo senso dell’esistenza?

Après moi le déluge?

Sia come sia, intanto occorre studiare miti e linguaggi di questi homines novi e feminae novae, di queste mille coniugazioni dell’essere che si situano fra i due estremi tradizionali.

Stanno svuotando una cultura complessa per forgiare una nuova cultura ancor più complessa. Si tratta di conoscere, studiare e non disprezzare questi nuovi modelli ed espressioni culturali. “Il braccio che è diventato pinna, forse non è un cancro, ma l’inizio di un pesce”.[2]

Tutte le mutazioni hanno provocato sdegno; proviamo a immaginare quali reazioni provocarono quegli artisti che smisero di dipingere madonnine e cominciarono a dipingere mele, pere e fagiani sanguinolenti; oppure quando Bach e Beethoven lavorarono indefessamente a una furba semplificazione di quel nobile mondo musicale che avevano ricevuto in eredità.

Si tratta di imparare a scrutare logicheche sembrano imprescrutabili, si tratta di accompagnare i giovani sulla loro strada, crescere insieme a loro senza ipocriti moralismi, ma con intelligenza, delicatezza, auto-ironia (che non guasta mai) sul come siamo e come eravamo.

Cambiare il punto di vista, scendere dalle nostre cattedre, non significa perdere l’autorevolezza dell’adultità, ma imparare a costruire ponti fra generazioni diverse: ponti per far transitare la relazione e la comunicazione, affinché si smetta di stare ognuno sulla propria sponda a guardare con pregiudizio e diffidenza chi sta dall’altra parte.

Studiare la generazione anni ’90, significa conoscere i documenti autentici, il modo di esprimersi, di comportarsi e di comunicare: nel mondo del rap e dei blo;, nell’esplorazione dei videogiochi più usati, nello studio del popolo degli stadi o nel linguaggio degli S.M.S.potremo trovare indizi, spiegazioni e sorprese.

Adolescenza

Prenderemo a modello di riferimento il mondo dell’adolescenza, perché in questa fascia d’età esplodono i problemi. Ma qualsiasi intervento educativo non può prescindere dalla conoscenza del quotidiano, dall’universo simbolico di tutti i soggetti a cui ci riferiamo.

Adolescenza: “età umana in cui si compie la maturazione sessuale, intermedia fra la fanciullezza e la giovinezza”, scrive il Devoto-Oli. Si presenta quindi come un incrocio fra “il non essere più” e “il non essere ancora”, per cui il soggetto si sente in bilico fra un passato che non passa e un futuro che tarda a venire. La stessa definizione per negazioni ne determina una concezione riduttiva: considerarla età intermedia intanto le impedisce uno statuto autonomo.

Sinonimi di adolescente sono giovincello, sbarbatello, fanciullo, minorenne, immaturo, irresponsabile… tutte parole più o meno negative.

E’ stata chiamata “età del malessere”, “età di crisi”: ma la parola crisi, che deriva dal greco krìsis , nome d’azione di “scelgo, separo e decido”, dà luogo a un’azione positiva, per cui le crisi costituiscono momenti alti della nostra vita.

Rousseau la definiva “burrascosa rivoluzione”, è comunque un’età cruciale per la strutturazione dell’identità, all’insegna della fluidità dei comportamenti e dell’identità stessa: perché l’essere umano è mimetico, soprattutto quando è fragile, e fragilità e mutevolezza sono condizioni proprie dell’adolescenza.

In questo periodo l’azione è più importante del pensiero: “l’universo trova spazio dentro me, ma il coraggio di vivere, quello ancora non c’è”.

La regola è la non regola: “una perpetua e rischiosa acrobazia” proprio come Gabriel Marcel definisce la filosofia.

Il rischio e la sfida riempiono la vita: “e guidare a fari spenti nella notte, per vedere se è così difficile morire…”

Età in cui prevale l’essere con rispetto al ben essere, per cui assume un’importanza basilare la vita del gruppo, secondo un processo di uguaglianza e differenziazione: noi siamo noi e siamo altro da voi.

Le caratteristiche generali dell’adolescenza si coniugano poi in modo diverso, secondo le caratteristiche dell’epoca in cui si collocano i soggetti. Per esempio, adesso, l’adolescenza è sempre più anticipata (soprattutto le bambine scimmiottano subito le adolescenti) e sempre più allungata (si rimane in casa dei genitori fino a trent’anni). Quindi, la condizione di disagio a cui generalmente si accompagna, si anticipa e si prolunga.

Le situazioni di disagio, che prima erano collocabili in soggetti appartenenti a precise fasce sociali, adesso sono rilevabili in qualsiasi contesto, costituiscono una condizione più generalizzata e investono tutte le fasce sociali.

Sembra si sia espandendo una cattiva qualità della vita e una conflittualità familiare sempre più frequente e acuta, tanto da mettere in crisi il medesimo concetto di famiglia. La famiglia è il luogo dell’ideazione e della realizzazione di un progetto di vita comune, dell’elaborazione di identità e di valori o è un gruppo di persone che vivono accanto, talvolta contro?

Anche la parola “disagio” viene definita per negazione: mancanza di agio e quindi fatica, privazione, imbarazzo, difficoltà, bisogno…

La separazione fra le generazioni generalmente si acuisce anche perché una parte misura l’altra cercando di instaurare relazioni di potere e di sfida.

Il risultato è un disagio generalizzato, che far star male tutti.

Parlare quindi di disagio nella scuola, presuppone una serie di distinguo, poiché la situazione che si verifica nella maggior parte è un incrocio di disagi.

Ci sono almeno tre soggetti in campo: studenti, insegnanti e genitori.

Il disagio degli studenti può manifestarsi nei diversi aspetti: cognitivi, relazionali, emozionali, in situazione di handicap, oppure dovuto a fatti contingenti.

Anche il disagio dei genitori può essere contingente o permanente, secondo le diverse casistiche:

  • non sanno fare il loro mestiere e non lo sanno
  • non sanno fare il loro mestiere e lo sanno
  • disagio dei singoli genitori
  • disagio dei genitori di fronte alla percezione del disagio dei figli.

Così pure per il disagio degli insegnanti, dovuto a

  • una preparazione professionale iniziale inadeguata
  • una formazione in servizio inadeguata
  • una presa di coscienza dell’inadeguatezza
  • un disagio emozionale personale contingente
  • problemi relazionali.

Agio significa invece ricchezza, benessere, opportunità, possibilità, facilitazione… “Mettere a suo agio” una persona, significa dedicarle cura, attenzione, riguardo, considerazione, assistenza, impegno… Vuol dire “darsi briga e, darsi pensiero”, “dare cura”. Dante scrive:

Mentre ch’io era a Virgilio congiunto
su per lo monte che l’anime cura…”

Tutto ciò fa capire quanto sia importante l’atteggiamento, la predisposizione, l’apertura, l’ascolto, che sono gli strumenti primari per la costruzione del ponte su cui far transitare l’azione educativa.

Quindi, che fare?

  1. Evitare di fronteggiare le sfide, di acuire i contrasti con azioni dirette a vincere, ad affermare potere, a prevaricare: relazioni di potere, contrapposizioni, comportamenti violenti non servono a nessuno,. La democrazia è una concezione di vita che si apprende con la vita, vivendola nelle relazioni con un esercizio continuo e non con imposizioni.
  2.  Evitare l’indifferenza: il conflitto è fertile, se è un’alternativa al falso quieto vivere, all’ipocrisia del “va tutto bene”, ma non deve essere mai significare umiliazione dell’avversario.
  3. Cercare l’equilibrio fra libertà e rispetto delle regole concordate, quell’equilibrio che ci ha indicato Fulvio Scaparro con la metafora del “gioco del bullone”: quello spazio, infinitesimale o grande che sia, che consente alla vite di muoversi stando in contatto col bullone. Se ci fermiamo il bullone arrugginisce e impedisce alla vite di muoversi.
  4. Focalizzare l’attenzione sui concetti di diversità e uguaglianza: non essere questo o quello (avversativo), ma essere questo e quello (congiuntivo). L’identità che si forma non ha bisogno di prescrizioni, ma di deciframento pazienti delle sue continue ridefinizioni.
  5. Dimostrare disponibilità e flessibilità, mediazione, negoziato fra le posizioni in conflitto, ad ascoltare e dialogare (un buon negoziato non prevede un vincente e un perdente, ma due vincenti) (ogni guerra è un fallimento della ragione e della fantasia) (la mediazione non è né una tecnica, né un’utopia, ma una tecnica carica di utopia) mediare, stare in mezzo, cum pane, comune appartenenza.
  6. Costruire insieme una nuova ecologia della comunicazione, sulla base del reciproco riconoscimento, della ricerca di un dialogo che non sia predica,di un atteggiamento di cura, partecipazione, promozione, condivisione.
  7. Coltivare una relazione i cui sinonimi siano curare, allevare, affinare, migliorare, promuovere, sviluppare, accarezzare (si accarezza un’idea), covare (si cova in segreto un progetto), nutrire (si nutre un sentimento). E i contrari: abbandonare, trascurare, negligere, lasciare incolto, essere ignavo, disinteressarsi, spegnere, maltrattare… Avere cura significa anche promuovere autonomia e indipendenza, sapersi ritirare quando ce n’è bisogno.

[1] A. Baricco, I barbari, Gruppo Editoriale L’Espresso, Roma 2006, p. 13

[2] A. Baricco, op. cit. p. 62.