L’Italia è considerata nel mondo il paese della musica, anzi alcune parole italiane vengono universalmente usate senza essere tradotte. Attualmente la musica è pervasiva nella vita quotidiana di ognuno, basti ricordare la costante colonna sonora dei telefoni cellulari che accompagna le nostre giornate in qualsiasi luogo. C’è tanta gente che balla, canta e suona; in ogni manifestazione della vita, feste e funerali, si sente il bisogno della musica: proliferano bande e cori, scuole di musica e di danza per tutte le età e tutti i gusti, ma nella scuola non viene adeguatamente apprezzata.
Quando diventa disciplina scolastica perde di significato, la sua importanza sminuisce, nei curricula scolastici è presente solo parzialmente.
La scuola italiana nel corso della sua storia ha fondato la sua impalcatura educativa sulla parola, emarginando di fatto, sottovalutandone la forza espressiva e comunicativa, gli altri linguaggi e in particolar modo quello musicale. In parallelo sono nate molte agenzie, che talvolta, pur non essendo programmate secondo una logica formativa, più o meno consapevolmente hanno inciso sulla formazione dei giovani, sensibili e ricettivi a molte forme di musica. Hanno riempito un vuoto, offrendo occasioni d’incontro a giovani di ogni età, “per il piacere di fare le cose insieme” indipendentemente da ambizioni professionali. Così appunto anche il teatro musicale.
La scuola pubblica ha scelto la via del potenziamento della sfera cognitiva piuttosto che la sfera emozionale e creativa, dimenticando quanto l’intelligenza emotiva costituisca un forte elemento di continuità fra istruzione e educazione.
Viene spontaneo domandarsi: è possibile un rapporto organico fra musica e scuola, facendo in modo che l’Educazione Musicale non sia una disciplina di secondaria importanza?
Fa parte delle materie di insegnamento nella scuola media, ma paradossalmente sparisce come disciplina scolastica nella scuola superiore, quando per gli adolescenti diventa un fondamentale mezzo espressivo, assumendo in questi ultimi anni un’importanza ancora maggiore di quanto non lo avesse prima.
I digital natives, come qualcuno chiama i ragazzi delle nuove generazioni, sono molto diversi dalla generazione dei loro genitori e dei loro insegnanti, di quegli adulti significativi che dovrebbero accompagnare e plasmare la loro crescita. I trenta-quaranta anni che li separano sono un’epoca storica immensamente più grande rispetto a quella che separava le generazioni precedenti; l’accelerazione del mutamento ha sconvolto codici e linguaggi, comportamenti e valori, stili di vita e culture, ha creato diversi modelli di estetica.
Le innovazioni e gli strumenti tecnologici che si sono inseriti nella vita dei giovani, tanto da sedimentarsi nella loro crescita, hanno determinato una forte differenziazione nelle modalità e negli strumenti dell’apprendimento, nel tipo e nella quantità delle competenze da impiegare nella quotidianità. Si sono infatti moltiplicate le tecnologie che accompagnano la nostra vita e i giovani le padroneggiano con naturalezza e abilità. Anzi, potremmo dire che questa è una generazione che comunica con strumenti.
Gli adulti invece – ancora appartenenti alla specie umana dell’homo sapiens – dimostrano spesso diffidenza, non ne comprendono a pieno il ruolo facilitatore, a volte temono che impoveriscano l’intelligenza. La presenza di nuove tecnologie a casa e a scuola e il differente uso che ne fanno giovani e adulti, aumenta il divario generazionale: loro sono sempre altrove, anche se li abbiamo davanti agli occhi, ci sfuggono con i loro strumenti sempre in mano, trasformando la vicinanza in lontananza.
Occorre quindi che docenti, genitori e comunque tutti coloro che svolgono un ruolo attivo per la crescita dei giovani, cambino il punto di vista, rovescino il cannocchiale per focalizzare e conoscere con maggior precisione il mondo giovanile, mettendo da parte pregiudizi e facili demonizzazioni. Ogni cultura giovanile si è sempre contrapposta alla cultura dominante, coniugando le modalità di contrapposizione in modi diversi e diversamente spettacolari.
Molto diverso questo homo zappiens dal suo diretto predecessore homo videns: la generazione anni ’80, ragazze e ragazzi sempre più soli davanti a una TV baby sitter e surrogato della famiglia.
La comunicazione registrava una netta prevalenza di linguaggi visuali, la vita subiva una progressiva accelerazione, e allora, mentre il libro agonizzava, anche il procedere del pensiero si semplificava e diventava debole.
Omologazione sì, ma anglo-americana: lo spettacolo si guardava e prevalentemente in TV. Adesso lo spettacolo si fa: con il corpo e con tutte le parti del corpo, con le tecnologie e con tutti gli strumenti possibili; l’homo zappiens si esibisce, spettacolarizza se stesso e il suo quotidiano, anzi, se il quotidiano non viene registrato e diffuso in internet, nemmeno esiste. Il web cambia tutto, è la sua culla. Il mouse e il telefonino sono appendici corporee. Il diario dei segreti è il blog.
I nostri giovani esprimono una cultura impoverita dal punto di vista qualitativo perché manca di rigore e di approfondimento, ma maggiore dal punto di vista quantitativo, per il facile uso delle tecnologie che ha potenziato la capacità di acquisire un maggior numero di conoscenze.Tutto questo ha aumentato l’esposizione alla musica dei ragazzi, che vivono in una “phonosfera musicale”, con l’i-pod sempre “piantato” nelle orecchie.
Con l’i-pod essi non ci comunicano solo che ascoltano e amano la musica – cosa di per sé positiva – ma ci comunicano anche un altro messaggio antropologicamente inquietante: possono essere altrove anche quando sono vicini a noi, possono non esserci anche quando ci sono. Non dobbiamo farci prendere dal catastrofismo, ma dobbiamo svolgere un lavoro approfondito e prendere coscienza che la musica può costituire un importante ponte per instaurare con i ragazzi una reale relazione educativa.
Costruire un ponte significa conoscere come è fatta l’altra sponda, altrimenti il ponte non si reggerà mai. Se l’altra sponda impedisce l’attracco, il ponte non potrà mai essere costruito e l’azione educativa di qualsiasi disciplina non transiterà in modo adeguato. La musica può rappresentare questo ponte, perciò occorre un’opera sinergica di tutte le istituzioni per sostenere la debolezza istituzionale che la musica ha nelle scuole.
Il Nucleo toscano dell’Agenzia Nazionale per lo Sviluppo dell’Autonomia Scolastica ha cercato di censire, far conoscere e valorizzare le istituzioni musicali presenti nel territorio (bande, scuole di musica, orchestre giovanili, etc.), evidenziando una ricchezza enorme sia dal punto di vista qualitativa che quantitativo, con la prospettiva di sostenerle in una dimensione organica e sistematica.
Quando Marco Papeschi ha presentato il suo lavoro non potevamo che assentire entusiasticamente: ben venga il teatro musicale, perché della musica a noi interessa l’aspetto della produzione e della fruizione, ma anche l’aspetto dell’insieme. La nostra società ha sempre più bisogno di una piccola parola latina: il cum, l’insieme. Dalla dimensione del “contro”, dobbiamo spostarci verso la dimensione del cum soprattutto con i nostri ragazzi e non accontentarci del semplice “accanto”.
Con la musica si potrà rispondere in modo più incisivo al diffuso dis-agio dei nostri ragazzi.
Dis-agio, inteso come mancanza di agio, di serenità e di cura, di cui soffre la maggioranza dei nostri giovani. Devono quindi essere percorse tutte le vie necessarie, politiche e istituzionali, per attuare quella cultura della creatività e dell’insieme, che ci permetta di far crescere davvero le nostre giovani generazioni, crescendo con loro. Ancora cum, insieme appunto.