“Raccontami una storia!”
E’ male se nella fretta del quotidiano non si raccontano più storie. I surrogati sono altro.
E’ il tepore dei fiati a riscaldare l’intimità di due corpi vicini, magari uno dall’altro nato ma spesso troppo lontani, tanto da non percepirne più gli odori e i sapori.
Quello di mia nonna sapeva di orzo e di miele e accompagnava il finire del giorno con “le storie di guerra”, poco dopo aver preparato, la sera, l’orzo da consumare con il latte e il miele, la mattina dopo. E “le storie di guerra” si mischiavano con “le storie di paura”, per esorcizzare la notte che stava per arrivare con le sue paure, ma anche per esorcizzare la vita che stava per complicarsi con i suoi imprevisti. Così mi lasciavo trasportare “come un sughero sull’onda” nei meandri della narrazione che presto diventavano i meandri del sogno.
Oggi, dopo gli studi e l’avanzare della professione, chiamerei questa esperienza personale “pedagogia inconscia per assunzione diretta”: mia nonna non lo sapeva ma la narrazione serve alla vita, così come il sogno serve a non perdersi nella realtà.
Quando poi si narra una vita, le cose si complicano ma si fanno più affascinanti, perché allora il legame fra generazioni diventa tangibile e sarà come scoprire dove sono le radici dell’esistenza, quelle radici, appunto, comuni. Communes  significa nello stesso tempo,  giocando con la sua etimologia, avere doni in comune, scambiarsi doni, ma anche stabilire moenia, determinare confini, confini che delimitano il noi e ci distinguono dagli altri, che servono, in sostanza, a delineare le  identità di chi parla e di chi ascolta, tanto da procedere insieme, non solo accanto. E pensiamo a quanto siano diverse queste due parole.
E’ vero, la narrazione è proprio una recita a soggetto in cui i ricordi si susseguono con gli andamenti ritmici dell’evocazione: talvolta è un segno dell’oggi a richiamare un particolare di ieri, a volte i ricordi felici allargano il cuore, altre si trova nell’oggi la forza di dire cose che ieri non si sarebbero mai dette. Insomma la sequenza non è mai cronologica.
Chi narra, rompe le trame dei ricordi e le ricostruisce nella narrazione con una prospettiva diversa: a volte distanziata, a volte ravvicinata.
E’ come se avesse un cannocchiale – per dirla come Pietro Clemente – e mettesse a fuoco di volta in volta prospettive di avvicinamento e di distanziamento.
Così l’emozionalità di allora si mischia all’emozionalità di ora e assume pulsazioni profonde, perché i ricordi sono soprattutto documenti di interni. Anzi si potrebbe dire che la cultura e l’educazione tradizionali abituano gli uomini a raccontare  fatti e le donne a raccontare emozioni, naturale sfogo d’un apprendistato iniziato da bambine. E sono emozioni forti, quelle che talvolta si cerca di dimenticare, ma se si dimentica di dimenticarle o si ricordano con coraggio, magari trasformandole in parole, allora pungono come spilli.
Scrivere la propria storia, infatti, è sempre un atto di coraggio e di responsabilità, molte sono le persone che iniziano a organizzare i ricordi e poi, quando questi si trasferiscono sulla pagina bianca, quando si fanno parole e assumo la loro corposità, ne hanno paura e se ne distaccano. Occorre una grande capacità di mettersi in discussione, ma è come un ritrovare se stessi e ricominciare da capo con una nuova consapevolezza.
Esce un nuovo io quando si libera la memoria dai suoi recinti.
Ed è un io capace di dare cornici di senso alla vita.
Esteriorizzazione dello spazio del dentro nello spazio del fuori, crescita della persona, capace di trasformare la parola ricordata, in parola pensata, la parola pensata in parola agita.
“C’era una volta…” e, soprattutto c’è ancora, una vita.
Una vita che, assumendo lo statuto di narrazione, si legittima come vita, acquista senso e realtà, comincia e esistere davvero nella scrittura.
Ma nel magico gioco, appunto, della vita, è proprio allora che tutto si ribalta.
Perché, quando la narrazione diventa libro, appare più come frutto della fantasia che della realtà: la vita che si fa racconto trasforma il reale in iper reale, tanto che poi, difficilmente si riesce a percepire il confine fra realtà e narrazione.
Insomma, chi narra rende il reale così personale, da farlo sembrare immaginario: cosa pensata, vissuta non adesso, che esiste nella mente e che si traduce in segni sulla pagina bianca e quindi in una nuova realtà.
Ma vita e narrazione della vita si interfacciano, non si elidono, si arricchiscono vicendevolmente.
Raccontare significa estrarre l’esistente dal non tangibilmente esistente, aiutare la realtà a connettersi con la memoria. Certo, ognuno sta dentro la propria storia, ma fra chi parla e ascolta c’è connessione, proprio grazie alla narrazione: quel filo che collega l’oggi all’ieri, la vita dei figli a quella dei genitori.
Così lo spazio dell’io diventa spazio del noi.
E il gesto del narrare si fa tutt’uno col gesto della vita.