Miti, modelli e linguaggi giovanili: come educare alla sessualità

Vizio comune di molti adulti che si occupano di giovani, genitori e/o insegnanti, è parlare dei giovani senza conoscerli, senza sapere bene qual è il mondo dei loro affetti, dei loro pensieri, i loro miti, modelli e linguaggi.
Insomma il loro universo simbolico, l’immaginario collettivo, i canoni estetici che a volte appaiono molto discutibili e vengono aspramente criticati…
Si presume di conoscerli, pensando che siano come noi quando eravamo giovani, e si sbaglia.
Intervenire in qualsiasi modo, nella scuola, nell’ambito della strutturazione dell’identità, non può prescindere dalla conoscenza del loro mondo.
Prenderemo a modello di riferimento l’adolescenza, perché in questa fascia d’età esplodono i problemi e intervenire appare improcrastinabile, ma qualsiasi progetto che riguardi la sessualità, deve essere inserito nell’ambito del processo di formazione e strutturazione dell’identità e iniziare prima possibile. Anzi nella fase pre-scolare con interventi di formazione dei genitori.

Adolescenza, adesso sempre più anticipata e sempre più allungata.
È sempre stata comunque un’età di crisi: Rousseau la definiva “burrascosa rivoluzione”.
È un incrocio fra il “non essere più” e il “non essere ancora”.
In bilico fra un passato che non passa e un futuro difficilmente immaginabile.
Dove l’azione è più importante del pensiero: “l’universo trova spazio dentro me, ma il coraggio di vivere, quello ancora non c’è”.
Dove la regola è la non regola: “una perpetua e rischiosa acrobazia” proprio come Gabriel Marcel definisce la filosofia.
Dove il rischio e la sfida riempiono la vita: “e guidare a fari spenti nella notte, per vedere se è così difficile morire…”
Età in cui prevale l’essere con rispetto al ben essere (importanza del gruppo, del branco).
Età cruciale per la strutturazione dell’identità, all’insegna della fluidità dei comportamenti e dell’identità stessa: perché l’essere umano è mimetico, soprattutto quando è fragile, e fragilità e mutevolezza sono condizioni proprie dell’adolescenza.

La strutturazione dell’identità è quindi un percorso difficile e mai compiuto che va accompagnato con delicatezza, senza ansie e confini troppo rigidi.
E con una grande alleanza fra gli adulti significativi (genitori e insegnanti) che accompagnano la crescita.
Soprattutto la sessualità dovrebbe essere libera di esprimersi.
L’adolescenza è un periodo cruciale in cui la percezione di sé si forma anche nei rapporti sessuali.
E, nella mentalità di senso comune, c’è sempre un processo preconfezionato: una donna si incontra con un uomo, si sposano, fanno figli e vivono felici e contenti…
Il tutto è preparato ancor prima della nascita dagli stereotipi fissi del rosa e del celeste, dai giocattoli, dai giochi, dalle favole, dai modi di dire e di considerare, dalle aspettative e dalle sanzioni dei genitori…
E quando l’amore sessuale prende strade diverse cominciano i guai.

La normalità è rigidamente codificata e gli adolescenti hanno tanto bisogno di sentirsi normali, il non sentirsi e il non essere considerati normali è una grande fonte di disagio.
Il diverso (in tutti i sensi) viene subito escluso dal gruppo e dalle sue dinamiche (la cronaca insegna), dileggiato ed emarginato.
Diventa una vittima. Vittima dei cosiddetti bulli, che diventano tanto più crudeli e aggressivi, quanto più si percepiscono incerti nel medesimo canone della normalità. Esorcizzano così questa incertezza con l’aggressività. (Ma sui bulli tornerò più tardi).

L’adolescenza si rappresenta in diversi modi, secondo le epoche storiche.
I digital natives, come qualcuno chiama i ragazzi delle nuove generazioni,  sono molto diversi dalla generazione dei loro genitori e dei loro insegnanti, di quegli adulti significativi che dovrebbero accompagnare e plasmare la loro crescita. I trenta-quaranta anni che li separano sono un’epoca storica immensamente più grande rispetto a quella che separava le generazioni precedenti; l’accelerazione del mutamento ha sconvolto codici e linguaggi, comportamenti e valori, stili di vita e culture, ha creato diversi modelli di estetica.

Mutazione genetica.

Homo videns: generazione anni ’80: i primi cartoni giapponesi (Remy e Ape Maya, sofficini e mulino bianco, Mazzinga Z, Ambra e Fiorello, Non è la RAI e Karaoke,  Madonna, gli 883…)
Ragazzi sempre più soli davanti alla TV, baby sitter e surrogato della famiglia.
Prevalenza di linguaggi visuali, progressiva accelerazione e semplificazione: il libro cominciava ad agonizzare, il procedere del pensiero a semplificarsi, a predominare l’intuizione più che l’analisi, la superficie più dell’approfondimento, la quantità più che qualità… insomma lo spettacolo si guardava e prevalentemente in TV…
Omologazione anglo-americana che forgiava miti, modelli e linguaggi tutti uguali.

Adesso lo spettacolo si fa: con il corpo e con tutte le parti del corpo: tatuaggi, percing, corpo body-art, capelli, vestiti (extra-large, extra-smool, comunque sempre extra…), il corpo diventa il centro della comunicazione. Qualsiasi azione, se non è spettacolarizzata, non esiste e le tecnologie aiutano e amplificano.
Concentrazione dei linguaggi non verbali: noi siamo noi e siamo altro da voi.
Ossessiva ricerca di adesione a modelli confezionati.
Spesso non si esprimono con discorsi strutturati, ma in gesti e comportamenti.

L’Homo videns si è presto mutato in zappiens.
Omologazione ancora, ma a modelli planetari: nuove tecnologie, accelerazione a ritmo sempre più forte, tutto e subito, tutto facile, potenziamento della spettacolarità: anzi se non c’è spettacolo non c’è divertimento…
La TV langue (si fa zapping), il libro agonizza (si legge Moccia), la playstation e il telefonino, sull’I-pod si ascolta Tiziano Ferro, Fabri Fibra e gli Articolo 31… niente politica, meglio il gruppo. Calcio e concerti sono i totem più forti.
Conoscere i testi delle canzoni che ascoltano i nostri ragazzi è molto significativo. Nel leggere Fabri Fibra, per esempio, balza evidente quanto il sesso, anche smaccatamente violento, sia presente e secondo codici aggressivamente tradizionali.
Sesso, ammiccamenti e allusioni esondano poi quotidianamente dalla TV come acqua da un rubinetto rotto. E la Tv è accesa a qualsiasi ora, si guarda meno, ma è accesa.
A sesso e violenza sono improntati i video giochi, sesso e violenza impregnano la vita sin dalla più tenera età, senza accompagnamenti né informazioni o spiegazioni di sorta.

Si chiami educazione sessuale, educazione alla sessualità o come altro si voglia, su questo terreno tutti sono latitanti: scuola e famiglia in una vera e propria alleanza del non dire.
Occorrerebbe invece una grande alleanza sul terreno dell’informazione (famiglie e scuola) e della formazione (relazione e comunicazione).
Il tema del sesso però, a scuola, non può essere affrontato trattandolo come una disciplina, questo è un errore in cui si è più volte incorsi, ma deve essere inquadrato nella visione complessiva di un processo di crescita della persona.
Così come qualsiasi proposta si intenda avanzare alle scuole, dovrebbe essere considerata in questo senso.

Ognuno è diverso canta Vasco Rossi e così il tema della sessualità, dell’amore, della diversità, deve entrare nelle scuole attraverso mediazioni culturali forti, come i libri, per esempio, o come la stessa opera dantesca che nessun insegnante potrà mai rifiutare, o il teatro e la musica.
Dobbiamo aprire le porte chiuse, aiutare gli insegnanti più sensibili, supportare il loro lavoro con strumenti utili e appositamente predisposti, senza provocare ulteriori chiusure. E’ sempre stato difficile trattare nelle scuole i temi della sessualità.
Dobbiamo promuovere un grande investimento nella cultura e nella scuola per svolgere un’azione prioritaria: fare in modo che il mondo degli adulti significativi conosca bene e non disprezzi il mondo dei giovani.
Per instaurare una relazione positiva, senza la quale non può giungere alcun messaggio educativo, occorre costruire un ponte fra le diverse generazioni.
E nessun ponte può essere costruito se non si conosce com’è fatta l’altra sponda o se dall’altra sponda si ergono barriere per impedire l’attracco.
Quindi è preliminare un tuffo nell’antropologia culturale per conoscere miti e linguaggi giovanili, non per fare giovanilismo (obbrobrio pedagogico), ma per dare significatività al nostro essere adulti.

Adesso si parla molto di bulli e di bullismo, ma la storia dei giovani è sempre stata la storia dello sforzo di ritualizzare la violenza per esorcizzarla, altrimenti esplode o contro se stessi o contro gli altri.
La violenza giovanile è sempre esistita, prima aveva il suo teatro privilegiato nelle strade, adesso che la vita di strada non esiste più, esplode nelle scuole e trova la sua cassa di risonanza in internet. Che anche nelle scuole non fosse tutto rose e fiori ce lo fa ricordare Franti che minaccia Derossi di “piantargli un chiodo nel ventre.” E’ comunque un fenomeno inquietante che sembra sfuggire a ogni controllo, dovuto alla mancanza del senso di giustizia nel cosiddetto “senso comune”, all’aumento dell’intolleranza, a una concentrazione dell’individuo sul proprio ego.
La violenza fa parte dell’animo umano, l’aggressività è dentro di noi, di per sé non è negativa (Anna Olivero Ferraris), si colloca all’origine del processo evolutivo; ma ogni società, ogni nucleo familiare, ogni individuo deve incanalarla nel percorso di crescita. Anzi, se governata nel processo educativo, può portare anche ad assumere atteggiamenti positivi: impegnarsi, avere grinta e determinazione.

Invece: esibizione di comportamenti provocatori, gli istinti di rivolta accompagnano sempre ciò che non si sa esprimere a parole.
Percepire la propria indeterminatezza provoca disagio e si ricerca una vittima per scaricare questo disagio.
I bulli sono ragazzi come gli altri, alla base dei loro comportamenti c’è tanta rabbia, accumulata per

  • la mancanza di punti di riferimento autorevoli,
  • l’assunzione di modelli sbagliati,
  • l’assenza o incoerenza del ruolo genitoriale.

Si è rotta l’alleanza fra genitori e insegnanti, che in passato avevano un pacchetto di regole fra loro tacitamente concordate. Il genitore faceva il genitore, l’insegnante faceva l’insegnante e non l’amico, che è altra cosa, è importante, ma sta da un’altra parte.
Genitori e insegnanti si sono progressivamente allontanati e spesso si trovano l’un l’altro armati.
Il familismo è degenerato in lassismo: molti genitori difendono i propri figli sempre e comunque, per ricoprire con nevrotica iperprotezione il senso di colpa delle loro assenze.
Certo che la scuola deve avere un’autorità autonoma dalla famiglia, ma basata sulle medesime regole di civiltà.
Il problema è che il ’68, con tutto quello che ha significato, si è innestato nell’americanismo del “tutto è possibile”, per cui il concetto del limite si è spinto fino all’eccesso e se il limite non c’è, non c’è nemmeno il piacere di scavalcarlo.
La fede nel progresso è sostituita dall’immagine di un futuro incerto (“il futuro non è più quello di una volta!”), dalla brutalità che identifica la libertà con il dominio di sé, del proprio ambiente, degli altri…
Chi è incerto, chi si sente diverso ha paura, si isola e viene isolato, si sente e viene considerato vittima e vive in un’atmosfera esistenziale che genera paura

In famiglia non si parla, troppo spesso si vive fra sconosciuti, non c’è condivisione…
E figurarsi se si parla di questi problemi.
La scuola poi continua a considerare suo compito il leggere, scrivere e far di conto e poco si occupa del corpo che cresce, dei sentimenti, delle emozioni, dei rapporti umani… di tutto ciò che riguarda il terreno della formazione.
Se mai aggiunge progetti al curricolo e non si è ancora capito che è proprio il curricolo, il terreno di gioco.
Insegnanti (homo sapiens) si trovano sempre più di fronte a silenzi e sguardi smarriti di una generazione che conosce poco, ancora non si erano abituati all’homo videns che si trovano davanti l’homo zappiens.

Alessandro Baricco parla di “mutazione”, “I Barbari, sono una specie nuova, che ha le branchie dietro le orecchie e ha deciso di vivere sott’acqua” o si tratta del normale duello fra generazioni? “Mi piacerebbe guardare quelle branchie da vicino. E studiare l’animale che si sta ritirando dalla terra, e sta diventando pesce. Vorrei spiare la mutazione, non per spiegarne l’origine (questo è fuori portata), ma per riuscire anche lontanamente a disegnarla. Come un naturalista d’altri tempi che disegna sul taccuino la nuova specie scoperta nell’isolotto australiano. Oggi ho aperto il taccuino.”

Noi dobbiamo aprire i nostri taccuini.
Non si possono proporre ai nostri giovani, iniziative pensate con i nostri schemi mentali, loro sono diversi e bisogna partire dalla conoscenza di questa diversità.
Hanno affinato diverse capacità:

  • di associare movimenti, suoni e immagini (generazione digitale),
  • di dividere la propria attenzione su più flussi di informazione,
  • di elaborare informazioni che non sono aggregate in un continuum (televisione) (il libro invece è lineare),
  • di far domande per ottenere risposte (computer),
  • di risolvere problemi (metacognizione).

Mentre noi pensiamo secondo moduli cognitivi di tipo analitico razionale, prevalentemente convergenti, loro usano con maggiore facilità il pensiero divergente.
Walter Benjamin non cercava di capire com’era il mondo, ma come stava per diventare.
Erano le mutazioni, le trasformazioni a interessarlo: dopo Proust, Baudelaire, Ghoete, Marx, Adorno ed Erodoto studia Michey Mouse.
Bisogna capire le dinamiche del loro modo di pensare, di comportarsi, di comunicare, quali sono i loro sogni, i loro valori e le loro utopie.
È una perdita di senso o un nuovo senso dell’esistenza?
Après moi le déluge?
Questi homines novi e feminae novae stanno svuotando una cultura complessa per forgiare una cultura ancor più complessa?
Si tratta di conoscere, studiare e non disprezzare questi nuovi modelli culturali spesso carichi di grande creatività.
“Il braccio che è diventato pinna, forse non è un cancro, ma l’inizio di un pesce”.
Tutte le mutazioni hanno provocato sdegno: quando si smise di dipingere madonne e si cominciò a dipingere mele e fagiani; Bach e Beethoven lavorarono indefessamente a una furba semplificazione del mondo musicale che avevano ricevuto in eredità.
Si tratta di imparare a scrutare logiche che sembrano imprescrutabili, si tratta di accompagnare i giovani, crescere insieme senza ipocriti moralismi, ma con intelligenza, delicatezza, autoironia sul come siamo e come eravamo.
Cambiare il punto di vista, partendo dal loro, rovesciare il cannocchiale
Partire dal loro mondo, conoscere le loro sponde, per costruire i ponti su cui far transitare una nuova cultura della comunicazione.
Ciò non significa appiattire la nostra cultura, ma partire dalla loro cultura per costruire un processo di comune accrescimento.
Si può arrivare a Dante anche partendo dalla musica rock.
Importanza della musica: miscela di suono, ritmo e parole che esprime opposizione e protesta; serve a scaricare energie ed emozioni, a esprimere istinti di rivolta.
Sarà possibile con nuove azioni e nuove alleanze fare in modo che il nostro homo zappiens diventi un nuovo homo sapiens, ricco di una diversa e più complessa sapienza? senza perdere le sue caratteristiche positive e quelle dell’homo videns?
Sarà possibile favorire la crescita di persone, uomini e donne nelle mille coniugazioni dell’essere?
E allora come può lo scoglio arginare il mare?

Che fare:

  • ricercare l’equilibrio del gioco del bullone Fulvio Scaparro: spazio, infinitesimale o enorme che sia, che consente di muoverci stando in contatto. Se ci fermiamo il bullone arrugginisce.
  • ridefinire i concetti di diversità e, uguaglianza: evitare di acuire i contrasti con azioni dirette ad affermare stereotipi. Non essere questo o quello (avversativo), ma essere questo e quello (insieme). L’identità non ha bisogno di prescrizioni,  di deciframento paziente delle sue continue ridefinizioni.
  • Costruire una nuova ecologia della comunicazione: cum munibus: riconoscimento, dialogo, cura, partecipazione, promozione, condivisione…
  • Evitare proibizioni indiscutibili: la violenza è espressione di debolezza.
  • Evitare contaminazioni: il giovanilismo, la madre-amica, l’insegnante-amico…
  • Imparare a crescere con i propri figli e con i propri studenti: attivare un processo di coevoluzione. Ma che significa crescere? Trasformarsi da vagabondi del mondo a cercatori e produttori di senso e significato. Guardar fuori scrutandosi dentro.
  • Evitare le prediche e le imposizioni, ritrovare la leggerezza liberandosi dal peso della prepotenza e degli stereotipi.
  • Condividere la crescita di un’armonica organizzazione dell’identità sessuale.
  • Considerare la sessualità come una modalità di espressione dell’individuo, evitando che il sesso diventi segreto, mistero, menzogna, proibizione, tabù.
  • Esser consapevoli che l’essere nelle sue mille coniugazioni fra il maschile e il femminile è un essere umano differente, soggetto  libero del proprio pensare e agire differente.
  • Non rinunciare a “cieli immensi e immenso amore”, scriveva Proust: “quello che chiamiamo bisogno di affetto, non è in realtà il bisogno di essere amati, è il bisogno di amare.” Perché il bisogno di amare non può essere moltiplicato nelle mille coniugazioni dell’essere? Perché questa società ha paura dell’amore?